Il 19 giugno, meno di un mese fa, se n'è andato Ian Holm, divenuto celeberrimo come Bilbo della versione cinematografica della saga di Tolkien firmata da Peter Jackson, ma attore di lungo corso sia a teatro che al cinema. Per ricordarlo vi proponiamo la scheda di Il dolce domani di Atom Egoyan scritta da Paola Malanga su Cineforum n. 369 nel novembre del 1997. Il volume è disponibile come in versione cartacea e pdf.
La cognizione del dolore
In un cinema contemporaneo che per lo più si concentra sull’esplosione della tragedia, fissandone l'istante drammatico come farebbe un telegiornale o un quotidiano, Atom Egoyan ha il coraggio di affrontare la fase sorda, indicibile, lunga e sotterranea che inevitabilmente segue la deflagrazione e di cui nessuno oggi sembra più in grado di parlare: cancellata dalla cronaca perché non fa notizia, rimossa subito dopo “l’ondata di commozione” da chi non vi è coinvolto personalmente, talvolta sepolta - fin dove è possibile - anche dalle vittime indirette. Come lo show, anche la vita “must go on”. Sì, ma come? E come raccontarlo? Si possono raccontare gli eventi di una tragedia, e questo è da tutti. Ma dirne lo strazio che segue per sopravvissuti e sopravviventi, strazio silenzioso e popolato di fantasmi, dove anche la memoria rischia di affievolirsi involontariamente sotto il peso di un dolore insopportabile, questo riesce davvero a pochissimi.
Il primo merito di Il dolce domani è questo. L'interrogarsi sul dopo, lo scavare nel dolore che, superato lo shock e - quando c'è - la pietà altrui, è condannato alla solitudine, alla rielaborazione di un lutto che spesso divide, abbaglia, altera contorni e sentimenti. Gli occhiali neri che indossa Ian Holm, per proteggersi dal candore accecante del ghiaccio e della neve che hanno provocato l'incidente, sono al tempo stesso il simbolo di questo lutto e la sua ambigua difesa: l’avvocato, che da tempo trascina con sé il dolore per la perdita di una figlia che forse non ha saputo capire fino in fondo, raggiunge lo sperduto paesino per fare i conti con se stesso, prima ancora che con la giustizia, a nome di tutti coloro che soffrono. Ed ecco l'altro merito del film di Egoyan: saper incrociare il dolore collettivo con quello individuale, nella consapevolezza che ogni sofferenza collettiva è prima di tutto individuale, e che l'individuo, di fronte ad esperienze tanto estreme, è sempre solo, spezzato, fragile, e perde l'equilibrio facilmente. Condividere una tragedia non significa automaticamente essere solidali, anzi quasi sempre il dolore isola e genera reazioni di altruismo egoista, come l'identificazione sospetta, cinica, ostinata, commovente e patetica di MitchelI Stevens nel dramma di altri genitori privati dei loro figli. È la tragedia nella tragedia: un gioco di specchi dove s'infiltra subdolamente il bisogno di “manipolazione”, affinché nella cura della sofferenza altrui si possa lenire, per traslazione emotiva, anche il proprio strazio e trovare così riscatto alla propria impotenza.
In Il dolce domani, lo vedremo poi, ritroviamo tutti i temi cari a Egoyan (i rapporti famigliari, la sofferenza, la memoria, la perdita di sé e delle proprie radici, la solitudine, la comunicazione persuasiva e manipolatoria), e riconosciamo senza fatica la forma e lo stile che l'autore predilige (la struttura frammentata, a mosaico, che cerca una ricomposizione nell’intreccio e nella messa in scena, la smagliante bellezza delle immagini, ricerca estetica e morale al tempo stesso, consolazione, difesa, rifugio ma anche condizione necessaria per affrontare l'orrore). Eppure, vedendo questo suo ultimo film che per la prima volta non si basa su un soggetto originale (è tratto da un romanzo di Russell Banks), si ha l'impressione che Egoyan sia arrivato al nodo fondamentale della sua ricerca, al fantasma spaventoso che da sempre cercava di affrontare vis-à-vis e che sempre lo faceva deviare altrove. Tutti i temi, si diceva. Tutti, meno uno: i video. Quante videocamere, quante macchine fotografiche, quante porzioni di realtà riflessa, immaginata, e soprattutto sostitutiva, c'erano nei suoi film precedenti. Qui c'è solo l'occhio nudo del regista: nessuno dei personaggi aziona uno strumento tecnico per la riproduzione delle immagini, il cinema è fuori campo, Egoyan non lo dispensa più ai suoi personaggi, lo tiene per sé. E il suo obiettivo, senza doppi né mediazioni, questa volta inquadra una storia altrui il cui eco riverbera la propria: nel dolore della comunità che ha perso i suoi bambini e che pare avviata verso la disintegrazione emotiva, c'è la tragedia del popolo armeno, a cui Egoyan appartiene. Il genocidio lo si avverte in lontananza, come in campo lunghissimo è ripreso l'incidente dell'autobus che precipita in fondo alla scarpata e si inabissa nel lago ghiacciato. Alla Bazin, la morte non si mostra sullo schermo. Ma il dolore pervade silenzioso ogni centimetro di pellicola. Ed Egoyan, che forse non farà mai un film sull’Olocausto del suo popolo, prova a raccontare l’inesprimibile agonia della sopravvivenza, condannata alla perenne sospensione tra memoria e presente. Con Il dolce domani il suo cinema delle “istantanee” e degli scatti, che sempre anelavano a una ricollocazione e sempre rivelavano altro rispetto alla visione originaria, acquista un respiro più ampio e un senso più profondo.
Padri e figlie
Si diceva di temi ed elementi del cinema egoyano. Se l'Armenia era concretamente presente in Calendar (lo stesso Egoyan interpretava il ruolo di un fotografo che torna in Armenia per riprendere delle chiese; ma di The Calendar viene ripreso, quasi ossessivamente, anche il leitmotiv del telefono), e l'avvocato Stevens, così premuroso con le vittime della tragedia, ha qualcosa del perito delle assicurazioni di The Adjuster, è tuttavia evidente che Il dolce domani è strettamente legato a Exotica, il fìlm che lo precede: anche lì il protagonista era un uomo che aveva perso la figlia, e l'unica cosa che lo confortava era recarsi ogni sera nel locale in cui si esibiva l’ex babysitter della sua bambina.
In Il dolce domani, l’intreccio ha come colonne portanti proprio due rapporti tra padre figlia: quello tra Stevens e Zoe mette in moto la storia, dal momento che la ragione profonda che spinge l’avvocato ad assumersi la causa è proprio il tentativo di riscattare il suo senso di perdita e di doloroso fallimento come genitore; quello tra Sam e Nicole la chiude, poiché è la bugia diretta al padre, ormai solo pietosa nei suoi confronti, che provoca il proscioglimento dell'inchiesta. Anche Nicole, prima dell'incidente, era una babysitter come la Christine di Exotica: e con il suo gesto ribelle di fronte al giudice va incontro alla richiesta di Billy, inascoltata da tutti, tradendo il padre che l'ha sedotta e abbandonata, punendo Stevens che le ha regalato un computer per comporre la musica, e scegliendo la figura più affettuosamente paterna di tutto il film, il vedovo che seguiva i bambini a distanza fin sotto il portone della scuola, che una volta le aveva regalato i vestiti della moglie scomparsa e che ora si offre di provvedere economicamente alle sue cure per scongiurare la causa, secondo lui foriera di disgregazione e pena ulteriore. È Nicole il vero centro del film, il personaggio a cui Egoyan dà maggior rilievo tra quelli presenti nel libro di Banks e a cui affida il baricentro emotivo e morale della sopravvivenza alla tragedia: il “dolce domani” in cui l'ha lasciata il pifferaio di Hamelin è suo (e l'idea della favola è di Egoyan, nel libro non c'è), mentre ai padri dolenti, e incapaci di uscire dalla spirale del proprio dolore, rimane solo un presente amaro, rabbioso, impotente, come urla in faccia all'incredulo Sam il furioso Stevens.
Protagonista del film, eroe mancato, figura tragicamente borghese e disperatamente umana (si veda la confessione all’amica d’infanzia di Zoe, figlia di un suo ex socio, incontrata per caso su un aereo), Stevens deve rinunciare anche alla sublimazione della propria sconfitta in una causa altrui, e alla fine non gli rimane che arrendersi a quello che ritiene l’oscuro, terribile e insondabile “castigo” delle figlie verso i padri. Perché Nicole abbia mentito, è un problema di Sam, dice lucidamente prima di lasciare indispettito la scena su cui sognava la propria grandiosa riabilitazione di fronte a se stesso e agli altri. Senza sospettare che forse Nicole è la versione positiva della sua Zoe.
Di schermi e proiezioni, abissi e superfici
«Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni», diceva Renoir in La regola del gioco. Egoyan, che da un punto di vista morale sa bene dalla parte di chi stare, nella messa in scena fa magnificamente tesoro di questa drammatica verità. Perfezionando ulteriormente la struttura a puzzle che da sempre costituisce l’anima dei suoi film, in Il dolce domani costruisce un mosaico corale, articolato e complesso, dove ogni personaggio - anche quello che compare per pochi minuti - ha un proprio spazio e una propria dignità. Ed è proprio questa messa in scena, concepita con lo spirito e la precisione di una partitura musicale per orchestra, a consentirgli di non cadere nel moralismo e a permettergli degli sfasamenti spazio-temporali che si rimandano l’un altro, si rincorrono e s’intersecano come note che dal pentagramma liberano la propria energia nella vitalità dell'esecuzione. La geometrica cerebralità di certe soluzioni precedenti qui cede il passo ad una fluidità narrativa evanescente e lirica, e l'impressione del mosaico via via si stempera nella sensazione della sinfonia elegiaca.
Il nitore delle singole immagini, che nei movimenti di macchina e nella composizione delle inquadrature dà prova, da parte di Egoyan, di una padronanza del mezzo sconfinante nel virtuosismo, ha lasciato perplessi non pochi critici. E se da un parte ha fatto gridare all'allievo che supera il maestro (il maestro sarebbe Wim Wenders) dall'altra ha fatto avanzare qualche dubbio di natura estetizzante. Eppure basta vedere l'ultimo film del regista tedesco, Crimini invisibili, per rendersi conto che sì, la brillantezza di Egoyan tende al lucido wendersiano ma sotto sa ancora vibrare in modo ambiguo e ribollente, come la strepitosa recitazione di Ian Holm, a cui basta un nonnulla per alterare la propria compresa compostezza.
La superficie così curata e levigata di Il dolce domani, che comunque è un bel vedere, cela lo sforzo di tenere insieme un materiale così incandescente dal punto di vista emotivo che la pellicola rischierebbe di bucarsi all'improvviso e prendere fuoco se non ci fosse questa ossessiva, ostinata, maniacale vigilanza estetica, che tutto vuol controllare e dotare di bellezza. Il manierismo può essere dietro l'angolo, ma da qualche parte, in certi casi, bisogna pur mettersi in salvo, non per ipocrisia bensì per bisogno di armonia di fronte a un dolore devastante: privatosi di tutti i dispositivi che un tempo gli facevano duplicare la realtà, nell'illusione che un suo surrogato fosse più sopportabile, Egoyan si è deciso a usare meno filtri possibili. Ma sa perfettamente che uno, purtroppo e per fortuna, è ineliminabile, come la pelle attraverso cui si disegnano i propri confini nel mondo: e la fulgida bellezza della sua messa in scena, epidermide senza rughe né smagliature, testimonia appunto, con appassionata tensione, di quel “purtroppo” e di quel “per fortuna”.