Un amico senatore, per certo pure lui di origine irlandese, dell'attuale Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, una volta gli ha detto: «Non tenere in conto che la vita, a volte, può metterti al tappeto, vuol dire negare l'irlandesità della vita». E anche l'italianità, verrebbe da aggiungere, soprattutto dopo aver rivisto, in fulgida copia rieditata in 4K, il capolavoro di Martin Scorsese Toro scatenato. Film sul quale è stato detto parecchio, e al quale non avremo la pretesa di aggiungere altro in questa sede, se non ricordare che è una delle opere di tutta la storia del cinema, e dell'arte in generale, in cui viene più magistralmente descritta la storia di un uomo in perenne lotta con se stesso. Frutto delle ossessioni di Scorsese regista, della meticolosità di Paul Schrader sceneggiatore, del notevole spessore professionale di Robert De Niro interprete e Michael Chapman direttore della fotografia, a suo tempo venne recensito su «Cineforum» (n. 203, aprile 1981) da Giorgio Rinaldi. Riproponiamo qui la scheda.
Nessuno ha mai messo al tappeto Jake La Motta; nessuno tranne se stesso. A riassumere il film basta questa frase, e su questa si esercita la lettura fatta da Scorsese e dai suoi sceneggiatori dell'autobiografia del pugile. Perché, contrariamente alle apparenze, Toro scatenato non è una storia sul mondo pugilistico, ma la storia di un pugile in lotta contro se stesso. Parente forse dell'anziano protagonista di Fat City, ma di nessun altro personaggio del mondo del ring riproposto sugli schermi. E Scorsese anticipa subito allo spettatore il singolare combattimento che opporrà La Motta unicamente a se stesso, presentandocelo nei titoli di testa ansimante e solitario eroe del ring. l suoi parenti prossimi La Motta può invece ritrovarli nella filmografia dello stesso regista. Soprattutto nel Johnny Boy che lo stesso De Niro impersonava in Mean Streets, ribelle e quasi folle, capace di esplicare la sua rabbia solo nella rivolta, impotente di fronte al corso delle cose e anarchico al punto da sfidare il prossimo con un revolver scarico, e nel Travis di Taxi Driver, ancora affidato a De Niro, psicotico e disadattato al punto da attentare alla vita di un candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
La Motta è sul ring solo contro se stesso, ma questo singolare combattimento non è confinato unicamente negli stadi ma lo impegna ovunque. Una pagina dell'autobiografia del pugile costituisce l'incoffessata chiave del film. Scrive La Motta: «Quando ero un ragazzino di sei-otto anni ci trasferimmo a Filadelfia. Andavo a scuola, e mia madre mi dava sempre qualcosa da mangiare, un panino, qualcosa del genere, e gli altri ragazzi, più grandi di me, me lo portavano via. Correvo a casa piangendo. Un giorno frignavo con mia madre perché un ragazzo mi aveva malmenato dopo che avevo inveito contro di lui per avermi portato via il panino praticamente di bocca. Mi si fece appresso mio padre, che mi colpì con uno schiaffo tremendo in faccia e mi mise in mano un uncino da ghiaccio. Mi gridò: “Ecco, figlio di puttana, e non scappare più via da nessuno! Non importa un cazzo quanti sono. Usa questo, faglielo assaggiare! Colpiscili con questo, colpiscili per primo e colpiscili forte. E non tornare più a casa a piangere, se no ti pesto io molto più di loro! Capito?”. Continuò a gridare e poi mi schiaffeggiò di nuovo, lasciandomi tramortito e con un orecchio che sibilava, ma quella frase, “Colpiscili per primo e colpiscili forte”, mi rimase impressa. È stata l'unica cosa buona che mi ha lasciato mio padre, e in seguito m'è sempre sembrato che facesse scattare nel mio cervello il grilletto giusto nel momento giusto. Da allora non mi sono separato mai più da quell'uncino per il ghiaccio. Lo portavo in una custodia di cuoio appesa alla cintura. E una volta che mi stavano lavorando mica male mi ricordai di quello che mio padre mi avrebbe fatto se fossi tornato a casa a frignare di nuovo, e mi venne in mente l'uncino. Lo cavai fuori e mossi all'attacco verso i tre. Se ci penso, ancora adesso riprovo quella sensazione di potenza che mi pervase in quel momento. L'uncino nella mano, ed ero invincibile!».
Scorsese non dice nulla sull'infanzia e non mostra i genitori del suo personaggio, ma persegue senza sbandamenti il continuo martellante scambio di colpi tra la dimensione privata di La Motta e quella agonistica. La violenza esce dal ring e dilaga nelle strade del quartiere italiano del Bronx, nei vicoli fatti di grigi palazzoni con le scale di ferro, nei locali notturni e nei bar degli anni 40 dove con i pugni volano sedie e tavoli, nell'appartamento povero che Jake divide con la prima moglie, imponendole anzitempo la cottura di una braciola, e in quello più pretenzioso che abita con la seconda e che è quasi una palestra per le sue imprese agonistiche. A fianco di questa violenza fisica c'è una violenza verbale che raramente si può riscontrare in un film: insulti, parolacce ed epiteti vengono dati e incassati come in un combattimento tra professionisti. E hanno la velocità dei pugni le battute che il La Motta entertainer lancia dalle pedane dei night club, della Florida o di Manhattan. E c'è infine una violenza, meno apparente ma non per questo meno profonda, affidata alle omissioni, ai sottintesi, agli sguardi: l'incontro di Jake con Vickie sui bordi della piscina ne offre quasi un'antologia.
Il rapporto coniugale esemplifica e per gran parte riassume l'attitudine del protagonista ad aprirsi la strada, anche fuori del ring, a suon di sventole. È un esercizio di violenza e prevaricazione. L'accoppiamento equivale all'accoppamento, mentre l'astinenza dal rapporto coniugale, imposta dall'assenza da casa o dagli imperativi dell'allenamento, fa convergere tutta la violenza, altrimenti scaricata nel rapporto coniugale, solo contro se stessi. Jake ama teneramente Vickie, ma le toglie la parola, non le lascia il respiro, sospetta di un'occhiata, di una festa, di una forzata lontananza. E così distrugge la donna, che tuttavia sa farsi scudo di una pur esile personalità, e, soprattutto, distrugge se stesso. Come in Play Strindberg di Dürrenmatt o in Scene di un matrimonio di Bergman, la vita coniugale è un match composto di tanti successivi round.
Questa violenza privata vuole essere anche specchio del dramma di una comunità di emigrati sdradicata dalla sua terra e insofferente al trapianto in una nuova comunità, la cui caratteristica plurirazziale serve da moltiplicatore di conflitti (si vedano le scene iniziali nel condominio, anno 1941). La Motta in lotta con la vita si scontra con il vecchio mondo e con quello adottivo. E con essi viene a patti quando è messo alle corde: del vecchio giunge a tollerare servitù macchiate di sangue (la sconfitta negoziata impostagli dal padrino), del nuovo adotta un sistema di valori che nei beni di consumo offre ingannevoli antidoti all'anonimato (l'automobile, ad esempio, grazie alla quale il protagonista può restare finalmente solo con Vickie). Scorsese delinea tuttavia l'amarezza di questa comunità di emigrati con accenti troppo pudici. Evita, e giustamente, di fare del suo protagonista il simbolo di un popolo mutilato nelle sue radici, ma non riesce neppure a trovare i persuasivi accenti che facevano dei protagonisti di Mean Streets le vittime delle nevrosi del ghetto. La storia di La Motta si conferma così come un'altra variante della storia della corruzione del sogno americano, della sete di gloria e ricchezza, dell'inevitabile rivincita che la violenza, individuale e collettiva, si prende sulla società. La Motta, il pugile che non si fa mai atterrare, è un uomo che ha subito tante volte l'umiliazione del knock out infertogli dalla vita. E questo knock out è il più doloroso e penoso: non c'è gong che blocchi lo scorrere del tempo o manager che getti la spugna. E quando perde il titolo e abbandona la boxe, il desiderio di combattere lo perseguita, ed è proprio questo desiderio che, alla fine, esercita contro se stesso. Caduto in prigione, spezza i pugni contro le pareti e urla di non essere un animale. Ma nella solitudine della cella per la prima volta fa la conoscenza di se stesso e della propria rabbia. Sembrava finito al tappeto per sempre e invece giunge a rialzarsi.
Scorsese accredita l'idea che la boxe sia una forma di pazzia, e costringe il suo protagonista a passare una seconda volta attraverso l'utero della madre per raggiungere una forma di sanità. O, per usare i termini di san Paolo, fa rinascere il suo La Motta alla «Vita secondo lo spirito» dopo avergli fatto vivere l'angoscia della «Vita secondo la carne». Il processo peccato-espiazione-redenzione era già presente in Chi sta bussando alla mia porta e Mean Streets, ma qui tende a farsi contemporaneamente più profano e più rigoroso. Della matrice cattolica di Scorsese avevamo avuto una prima testimonianza nel personaggio di J.R. (interpretato da Harvey Keitel), protagonista del primo lungometraggio. Chi sta bussando era la confessione, non sempre sincera, di un'ambiguità culturale ed esistenziale. Alla fine, J.R. andava in una chiesa alla ricerca di qualche conforto, ma l'eco della musica rock, incessante nella sua mente, gli faceva misurare il contrasto esistente tra il suo modo di vita e la sua educazione cattolica. Ambigua era anche in Mean Streets la figura di Charlie (nuovamente Harvey Keitel), nella quale si mescolavano la ricerca di una rispettabilità borghese e una singolare vocazione al martirio. Charlie nella penombra della cappella, rivolto al Crocefisso, diceva: «Non merito di mangiare la tua carne e bere il tuo sangue. Se sbaglio voglio pagare a modo mio». E la voce off del regista saldava a questa confessione la propria: «Non si è assolti dei propri peccati in chiesa, ma nella strada o in se stessi». In Toro scatenato la crisi esistenziale del protagonista giunge a maturazione e, sebbene anche qui appaiano interni affollati di croci e terrecotte, l'attesa assoluzione dei peccati non avviene in chiesa ma, letteralmente, nella strada e in se stessi.
Il discorso religioso, per quanto più compiuto, si trasforma tuttavia da sofferto (e compiaciuto) in letterario (e laico). Tutto proiettato nell'azione, dimentica il soprannaturale, anche come referente. La citazione finale dell'evangelista Giovanni, che racconta l'episodio del ragazzo cieco che ritorna a vedere e si dimostra riconoscente verso il suo benefattore, chiunque esso sia, è esemplare. Tra le tante che il Vangelo offre sul tema della rinascita per potere entrare nel regno dei cieli, è una delle più povere di dimensioni spirituali. Nel breve spazio di questa citazione, anche la figura di Cristo viene ridotta a una dimensione taumaturgica.
A dispetto dei tanti punti di riscontro con la sua filmografia, Scorsese ci dà con quest'ultimo film un'opera realmente nuova. Dopo essersi laureato con Mean Streets autore personalissimo e con America 1929 narratore di grande scuola, non ha avuto paura di rimetter in gioco la sua formazione a favore della ricerca e della sperimentazione. Tutti i suoi ultimi film rappresentano un capitolo nuovo e compiuto nel quale gli echi stilistici delle opere precedenti trovano un naturale assorbimento. In Toro scatenato esercita sul filone pugilistico la stessa violenza che aveva sperimentato sul genere musicale in New York, New York. Ne rispetta i canoni, ritraendo il mondo del pugilato sia in forma specifica che in proiezione allegorica dell'universo statunitense, e poi li violenta e li supera, concentrando altrove il proprio interesse.
Anche nei riguardi del suo protagonista si discosta dai modelli passati. Esercita su La Motta tutta la sua curiosità ma gli nega ogni simpatia. Quasi uno scandalo nella drammaturgia cinematografica. Dinamico e scontento, sempre irrequieto, Scorsese mette a frutto la padronanza di tutte le tecniche e i segreti della macchina da presa per approdare ad uno stile ora di stampo naturalistico, ora iperrealistico. Col primo offre la pittura dei ghetti e degli appartamenti, col secondo quella delle palestre e dei quadrati. L'equilibrio non sempre è felice e la risultante confina col disordine, ma l'esercizio è illuminato da straordinaria tensione. Nulla è dispersivo o gratuito. E neppure il polemico impiego del bianco e nero è motivabile con la sola crociata contro la labilità del fissaggio dei colori. Scorsese affida al bianco e nero la sua orgia di violenza convinto che la vita di La Motta presenti sempre i contrasti al massimo grado. Non per nulla le poche tracce di dolcezza, affidate ai filmini di famiglia, presentano i segni del colore. Segni tuttavia labili, e non solo perché le vecchie bobine sono corrose dal tempo, ma perché ritraggono una realtà edulcorata, anzi la mistificazione della realtà. Ancora un elemento, questo, del lungo discorso che il regista conduce di film in film sul rapporto tra cinema e vita.