Il 19 ottobre del 1973 usciva nelle sale americane Chi ucciderà Charley Varrick?. Don Siegel avrebbe voluto intitolare il film The Last of the Independents (il soprannome scelto dal protagonista: sicuramente, in questa definizione il regista vi si riconosceva), e inizialmente l'interprete principale avrebbe dovuto essere Clint Eastwood. Poco male: Walter Matthau è un portento, ironico e sornione quanto basta anche in una parte drammatica e di azione, per un gangster movie rurale che è invecchiato egregiamente. Per i patiti degli aerei al cinema, la sequenza finale, quella del duello fra automobile e biplano, fu curata da Frank Tallman, che di lì a sei anni avrebbe supervisionato le scene di volo di 1941 – Allarme a Hollywood. Di Charley Varrick, «Cineforum» ha parlato due volte: la prima sul n. 133, giugno 1974, in una recensione di Maurizio Porro, la seconda sul n. 471, gennaio/febbraio 2008, in un pezzo di Arturo Invernici in occasione dell'uscita in home video. Riproponiamo entrambe.
La situazione d'avvio dell'ultimo film di Don Siegel Chi ucciderà Charley Varrick? (Charley Varrick, 1973) è una situazione tipica da commedia degli equivoci: un rapinatore intelligente ma destinato per pigrizia a rimanere nell'ambito della “mezza misura” compie, a sua insaputa, una prodigiosa rapina in una banca di provincia. Infatti il bottino anziché essere di pochi dollari è di molte migliaia di dollari e Varrick e il suo complice non ci mettono molto a capire che si tratta di “soldi sporchi” – ossia di denaro che a sua volta, prima di passare nelle mani dei banditi, è già stato “rubato” da una organizzazione criminale affiliata alle grosse banche.
Il rapinatore intelligente contro il rapinatore fortunato, come dire il braccio e la mente che si fronteggiano. Varrick infatti (il suo socio è brutale e stupido, verrà eliminato) deve fuggire da chi d'ora in avanti lo perseguiterà e deve, nello stesso tempo, fuggire anche dalle indagini della polizia. Saprà farcela mettendo a punto un diabolico piano. Nessuno, quindi lo ucciderà, come lascia erroneamente prevedere l'insensato titolo italiano; perché nessuno può uccidere la scintilla della genialità, anche se asservita al crimine.
Si diceva che in fondo è una situazione da commedia, la scoperta cioè di essere caduti in un equivoco e il gioco obbligatorio che ne consegue. E infatti in Charley Varrick Don Siegel fa sfoggio di un raffinato sense of humour, di quello vero, imparentato molto da vicino con l'angoscia. Varrick è un personaggio riuscito: un uomo di mezza età (da giovane si esibiva in un circo, non gli manca la voglia della fantasia), quasi vinto ma non ancora pronto al declino della coscienza della maturità. Un uomo cui il destino, proprio in questo magico momento del trapasso, propone un tiro imprevisto che lo riporta nell'entusiasmo dell'esistenza.
Film di tempi e d'azione, Varrick possiede il gran dono del ritmo del buon cinema: il susseguirsi delle azioni (ordinarie e straordinarie) è calcolato in un “unicum” che Siegel padroneggia con grande mestiere e con calcolato ma non banale senso dello spettacolo. I personaggi (non solo il protagonista) si stagliano sullo sfondo di un paesaggio di provincia (la California) del tutto verosimile e grande cura hanno anche·i personaggi minori, pietrine importanti del completo mosaico. Non è da oggi che Don Siegel, per gli amatori del buon cinema, è un uomo da tenere d'occhio. Ma per molto tempo molti si sono ostinati a considerarlo un regista di serie b, forse perché all'inizio faceva film a basso costo. E invece Don, figlio di Samuel Siegel suonatore di mandolino, che ha studiato a Londra e a Parigi e che voleva fare il pittore, che ha adorato il cinema fin da quando faceva il montatore alla Warner (il rapporto con Hawks), è un piccolo grande autore.
Piccolo, se vogliamo a tutti i costi fare un ragionamento ideologico e tematico, considerato che la maggioranza della sua produzione è imperniata sul problema del potere del poliziotto manesco (L'uomo dalla cravatta di cuoio, Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo) con qualche variazione sul tema (il residuo alla Tennessee Williams nell'interessante Notte brava del soldato Jonhatan); ma grande se pensiamo, come in realtà è, che il cinema viva di vita propria e di proprie immagini, al di là dei significati che esse possono o meno possedere. Lo stesso Siegel (che ha già girato un altro poliziesco che si annuncia interessante, Drabble con Michael Caine) non vuole rinunciare allo scontro ideologico: si dichiara con soddisfazione un regista che dirige film che vogliono piacere al pubblico. E quando, per Dirty Harry, fu accusato di “fascismo”, rispose serafico che il vero fascismo annidava altrove, per esempio nel suo fraterno amico Sam Peckinpah, autore di Cane di paglia, apologia della vendetta piccolo borghese contro chi rifiuta i ranghi prestabiliti.
«Io», dice Siegel «faccio vedere solo la logica della violenza, non la sua truculenza». Il ragionamento (dubbio per Dirty Harry) non fa una grinza per Varrick, dove c'è evidente il gusto della necessità e della concatenazione logica degli accadimenti, come in uno schema enigmistico. E inoltre non si può dimenticare che Varrick è un piccolo eroe della malavita e non della polizia, e che, entrando in banca per la rapina, urla al cassiere «Sei proprio deciso a voler morire per difendere i soldi di altri?». Una battuta non del tutto irrilevante.
È probabile che non esista nel film come negli altri di Siegel una struttura di comportamento morale cui fare riferimento: il suo cinema mostra un mondo in atto e non una sua ipotesi preferenziale. Per questa ragione c'è anche quella bella sequenza nella casa di tolleranza (è reale, l'ultima esistente negli States). È l'America amara di sempre. E Walter Matthau riflette in sè tutto questo ragionamento, rifrangendolo poi in mille sfumature diverse. È decisamente grande.
Chi è Charley Varrick, e perché ce l’hanno tanto con lui? Lui è l’“Ultimo degli Indipendenti”, come recita la scritta sul furgone della sua ditta, la “Charley Varrick Crop Dusting Company”, e si occupa di spargere diserbanti sui campi da un aereo. Già pilota acrobatico, assai competente, preciso, metodico e taciturno, nel suo lavoro è un asso. Per arrotondare le magre entrate (essere l’ultimo degli indipendenti è dura, anche per il più bravo, a fronte della concorrenza sempre più forte delle grandi compagnie), Varrick, a tempo perso, rapina qualche piccola banca di provincia, accontentandosi del poco che trova. Ma stavolta, senza volerlo, l’ha fatta grossa: la banca di Tres Cruces, nel Nuovo Messico, in realtà è un “deposito” di soldi sporchi, nel quale la mafia lascia riposare i proventi delle attività illecite in attesa di riciclarli. Invece dei soliti duemila-tremila dollari, il “cocuzzaro” è di tre quarti di milione. Quanto basta perché i dirigenti della banca comincino a preoccuparsi, e perché i potenti boss derubati sguinzaglino alle costole di Varrick il più feroce dei loro mastini. Ma l’Ultimo degli Indipendenti saprà come svicolare.
Film che, nella filmografia di Don Siegel, segue la cosiddetta cop trilogy (Squadra omicidi: sparate a vista, 1968; L’uomo dalla cravatta di cuoio, 1969; Ispettore Callaghan… il caso Scoprio è tuo, 1971) e due western atipici (Gli avvoltoi hanno fame, 1970; La notte brava del soldato Jonathan, 1971), Charley Varrick è un gangster movie degno d’interesse per più di una ragione. Prima di tutto, per l’indubbia capacità di Siegel nel costruire un racconto poliziesco tanto perfetto nel meccanismo quanto trasparente nella messa in scena. Siegel, che a suo tempo era stato “a bottega” come aiuto montatore e direttore di seconde unità alla Warner (con registi come Raoul Walsh, Michael Curtiz, Sam Wood, Anatole Litvak e, sopra tutti, Howard Hawks), sa come allestire una storia. Ritmo serrato, personaggi tosti quanto tormentati, delineati con pochi tratti, uso sapiente dell’ironia, anche nelle storie più truci, sono sempre stati la sua marca stilistica, spesso venata da uno spirito “anarchico” piuttosto singolare per un regista hollywoodiano della sua generazione.
Charley Varrick è la cronaca puntuale del riscatto di un uomo di mezza età ormai da tempo disilluso, che non chiede troppo dalla vita, ma allo stesso tempo rifiuta di gettare la spugna nella sua solitaria, silenziosa lotta contro un mondo che lo vorrebbe “perdente”. Il personaggio di Varrick riprende, sviluppa, conferma e contraddice a un tempo i protagonisti dei film siegeliani precedenti. Come il gangster interpretato da Lee Marvin in Contratto per uccidere (1964) e, sull’altro versante della legge, il tenente Madigan di Squadra omicidi, il crop duster è un solitario, un uomo di poche parole che non è precisamente in conflitto aperto col mondo, ma al quale non garbano le regole del gioco, preferendo ritagliarsi un proprio angolo di indipendenza. L’isolamento di tali personaggi non è dato tanto da un rifiuto da parte della società, sia essa legale o criminale, quanto dal fatto che in essa non vi si riconoscono.
Il prezzo da pagare, solitamente, è alto. Ma Varrick, a differenza dei suoi predecessori, la spunta, e la spunta alla grande, forte di un’arma invincibile, l’ironia, che ai suoi “predecessori” mancava. Non parte lancia in resta contro i mulini a vento. Al contrario: trovatosi per caso in una partita più grande di quanto previsto, sa mettersi da parte, aspettare, giocare d’astuzia, facendo buon uso della sua capacità di osservare quanto accade con un cauto distacco.
Per il ritratto di Varrick è stata fondamentale la presenza di Walter Matthau. Vero e proprio coautore de facto del film (anche se fra lui e Siegel, dicono i pettegolezzi, durante la lavorazione pare ci sia stato più di un attrito…), è grazie all’attore se il personaggio dà un’impronta così decisa al film. Sornione, ma allo stesso tempo determinato, dalla sua “faccia di gomma” i sentimenti trapelano assai raramente. Matthau, con un registro recitativo giocato principalmente in souplesse, in un paio di momenti sa far affiorare, come da una piccola crepa che però si richiuderà subito dopo, ciò che gli passa per la mente o per il cuore. Preoccupazione per la piega presa dagli avvenimenti, per esempio, quando si accorge della provenienza del denaro che ha rubato. Ma, soprattutto, nella notevole scena della morte della moglie-complice, allorquando, prima di bruciarne il cadavere sull’automobile della fuga per impedirne il riconoscimento, le dà un ultimo bacio. Nessuno strepito, nessun pianto. Solo trattenuta, sincera commozione. Varrick/Matthau: l’ultimo degli indipendenti, ma anche uno degli ultimi romantici.
Siegel, da par suo, sa giocare benissimo le carte dei codici di genere. Charley Varrick appartiene a pieno titolo a quel sottogenere di ambientazione rurale che intreccia western e gangster movie. L’avvio è da manuale: sui titoli di testa scorrono immagini di tranquillissima vita di provincia, fra signori anziani che espongono la bandiera sulla veranda di casa, agricoltori alle prese col lavoro mattutino, bambini che giocano, ragazze che annaffiano il giardino. Un ambiente agreste, provinciale, di una tranquillità talmente esibita che non può non suggerire il dubbio che qualcosa di violento stia per accadere (un po’ come farà, qualche anno dopo, David Lynch con la prima sequenza di Blue Velvet).
Ma il gangster movie rurale si colora di sfumature che lo rendono più gustoso. Come osservava giustamente Maurizio Porro su queste colonne all’uscita del film («Cineforum» n. 133, giugno 1974), sia la situazione di avvio che il suo svolgimento hanno più della commedia degli equivoci che del film di rapine. È da commedia il qui pro quo di partenza (il colpo piccolo che diventa un colpo grande). È da commedia, a modo suo, il tratteggio dei personaggi secondari, delineati con poche, efficaci pennellate, come a renderli deliberatamente bidimensionali in modo da far risaltare ancor più a tutto tondo la figura di Varrick. Sono da commedia, infine, alcune scene come quella della notte d’amore fra Varrick e la segretaria del “banchiere di mafia”, sviluppata argutamente con uno scambio di battute degno di una screwball comedy e uno stacco di montaggio di fine sequenza molto sbarazzino. Come sbarazzino è il “colpo di coda” conclusivo. Che, come si conviene per ogni film di suspense, non anticipiamo. Lasciamo la delizia della scoperta (o riscoperta) a chi vorrà rivedere il film.