Ottani. La maggior parte su rotaie. Ma anche sangue e proiettili. Nonostante sarebbe più opportuno parlare di lazos e polvere, perché di sangue e proiettili se ne avverte la presenza solo fuoricampo come pretesto per provocare un senso di colpa lungo un intero viaggio.
È vero che Lo straordinario viaggio di T. S. Spivet testimonia ancora una volta più che altro il progressivo inabissarsi di Jean-Pierre Jeunet in una sua personale palude creativa che da Amélie in avanti lo ha abbandonato solo sporadicamente, ma è anche vero che la vicenda del piccolo genietto T. S., apparentemente incompreso dalla sua stessa famiglia, premiato con il prestigioso Baird Award dello Smithsonian per l'invenzione di un dispositivo ruotante con moto perpetuo, non può lasciare indifferente questa rubrica.
Il moto perpetuo. La mitopoiesi della dromomania. Il sogno inseguito con avidità e mai realizzato dai two jacks, London e Kerouac, dallo sconnesso Neal Cassady, dal gaudente Ken Kesey e dai suoi allegri burloni e dall'ipertrofica polliciona Sissy Hankshaw (quella di Tom Robbins; quella di Gus Van Sant il viaggio l'aveva terminato ancor prima di iniziarlo).
Moto perpetuo per il quale il piccolo T. S. lascia all'alba il Coppertop ranch in cui risiede con la famiglia, near Divide, Montana, spartiacque continentale, per andare verso est, Washington D. C., a ritirare in completa solitudine l'ambito premio inaspettatamente vinto. Da Divide a Chicago su un treno merci, come un hobo fuori tempo massimo, emulo dell'Imperatore del Nord Lee Marvin ma senza che un qualunque Ernest Borgnine gli si ponga con il fiato sul collo per tirarlo giù in malo modo. Da Chicago a Washington su un maestoso tir, il cui autista, anch'egli tanto lontano dal Kris Kristofferson di Convoy - Trincea d'asfalto, punta a bloccare la perpetuità cui T. S. tende. E lo fa fissando l'hic et nunc con selfie con tutti gli autostoppisti che carica, impossessandosi dell'unicità del momento sottraendolo all'infinito scorrimento dello spazio. Più Benjamin che Peckinpah.
Il viaggio di T. S., tuttavia, non implica una trasformazione. T. S. non cresce. Non ne ha bisogno. A sei anni invece di colorare i disegni, come tutti i bambini, calcolava sulle sagome le proporzioni e le altezze con un complesso intreccio di linee tratteggiate. A dieci tentava di aiutare il padre progettando un articolato sistema di irrigazione agricolo. E vinceva lo Smithsonian. Neanche gli ostacoli incontrati sul cammino paiono particolarmente formativi: un poliziotto oversize che a Chicago lo insegue affannosamente obbligandolo a lanciarsi oltre una chiusa fluviale e un altro, sempre sovrappeso, che si limita a scrutare all'interno del camper in cui si è rifugiato, costringendolo a mimetizzarsi con due sagome al tavolo, in una perfetta replica di un idilliaco quadretto familiare, quasi a uso di uno zuccheroso spot televisivo. Anche il camionista, nonostante il vago aspetto ornitologico, rappresenta tutt'altro che una minaccia: mentre T. S. dorme al posto del passeggero, si china su di lui, anche il meno perverso pensa per un attimo, uno solo, brevissimo, che stia per approfittare del bambino, e invece gli prende il succo di frutta dalle mani e glielo posa sul cruscotto in modo da non farlo cadere. Nessuna minaccia neanche dall'esterno: il paesaggio scorre fluido e cartolinesco, rotondo e disteso come se Grant Wood si fosse impossessato dell'anima di Andrew Wyeth per un connubio panoramico incantato e rassicurante.
Il viaggio di T. S. acquista importanza esclusivamente per la sua assenza. L'assenza da casa. E in assenza anche di un qualunque accenno melodrammatico che mostri il patema della famiglia per la sua misteriosa (per loro) scomparsa. Patema, che se c'è, rimane relegato in un fuoricampo estremo, talmente estremo che fa dire ripetutamente al bambino di essere orfano, perlomeno fino a quando la madre se lo va a riprendere fin negli studi televisivi di Washington. Un'assenza, quella di T. S., che serve a riconciliare il bambino con se stesso e a riaffermare i legami familiari che pensava recisi a causa del doloroso senso di colpa per essere stato involontariamente causa della morte del gemello Layton. Nella visione di un europeo dal glucosio eccedente, filtrata dal romanzo di un autore americano esordiente, il viaggio è più importante per la reazione invisibile che suscita che per l'esperienza che produce.
Questa rubrica, infine, intende rendere omaggio a uno dei personaggi del film: il padre di T. S., Tecumseh Elijah Spivet, un «cowboy nato cento anni troppo tardi» dalle poche parole e dai modi bruschi, perennemente in sella al suo cavallo e metodico bevitore di whisky (un sorso ogni 45 secondi). Si sa, questa è una rubrica nostalgica, ma vedere che qualcuno abbia il coraggio nel terzo millennio di guardare nello schermo di un televisore svalvolato Riders of Destiny di Robert Bradbury, prodotto dalla Lone Star nel '33, e interpretato da John Wayne all'epoca ancora singin' cowboy, fa venire una stretta così forte al cuore da arrivare a pensare di implorare cotanto padre: «Ti prego! Adottami! L'altro non torna più!».