È ormai una verità inconfutabile anche per gli aficionados. Difficile da accettare per chi ha pensato per decenni che non ci potesse essere cinema americano senza il western (Bazin se n'è andato inopinatamente prima, e probabilmente avrebbe sofferto pene indicibili nel riconoscerlo), ma il western non c'è più. Così come non esiste più il suo diretto discendente, il (vero) film on-the-Road, apparso nel pieno della fase crepuscolare, sfruttando una tradizione lunga quanto la storia (breve) della nazione, per attualizzare con ruote gommate e spirito antieroico gli spostamenti a cavallo e i riti di conquista del territorio.
Puff! Scomparsi. Si potrebbe istituire un sondaggio online sul perché. Da anni dico sempre la stessa cosa, come un Walter Brennan affetto da demenza senile. È cambiato il gusto degli spettatori, ormai plasmati dai ritmi forsennati di videoclip e videogames. Ma si è esaurito anche un preciso ruolo archetipico e antropologico. Il western si è dissolto per sopraggiunta inutilità del suo ruolo storico e sociale. Frontiera conquistata, modelli definiti per sempre e sorpassati implacabilmente dai tempi. Tempi in cui anche il ribellismo solitario del Road Movie appare tristemente demodé. Come se i Led Zeppelin avessero inforcato occhialoni di plastica per comparire nelle immagini sintetiche di Video Killed the Radio Star.
Bonzo Bonham ci ha lasciato. Più o meno quando lo ha fatto John Wayne. E non c'è più neanche Dennis Hopper. Un autentico festival dell'abbandono progressivo. Ogni tanto polvere, speroni e asfalto ricompaiono, ma sono solo fantasmi. Sangue, proiettili e ottani non fanno più proseliti, non sconfessano un disegno definito da tempo. Illudono o si camuffano, quasi vergognandosi (Non è un paese per vecchi, Drive).
Per rimanere ai fatti recenti e non farci travolgere dalla nostalgia del tempo-che-fu, che sarà un po' la cifra di questa rubrica strabica, con un occhio al passato e l'altro rivolto alle incidenze (relative, ci si può scommettere) sul presente, prendiamo The Lone Ranger.
Produzione Disney e Jerry Bruckheimer. Regia di affidabile spettacolarità firmata da Gore Verbinski. Johnny Depp a garantire la fidelizzazione del pubblico. Un investimento notevole per un successo annunciato. Una mezza rovina all'atto degli incassi effettivi. Un coro di critiche contro, alcune anche particolarmente incattivite, qualcuna addirittura sadica («A jumbled botch that is so confused in its purpose and so charmless in its effect that it must be seen to be believed, but better yet, no.», Mick LaSalle, San Francisco Chronicle del 2 luglio). La solita speranza frustrata, evidentemente.
Eppure. Eppure, a ben guardare, provando a concentrarsi tra l'odore saturo di pop corn e lo stridore delle succhiate di cola, Lone Ranger indica una strada. Una delle poche strade praticabili per il caro vecchio e ormai impalpabile western. Terminata da più di mezzo secolo la fase mitopoietica, cristallizzato il modello pseudo-storico, svuotato l'afflato etico, reso superfluo dall'evolversi dei tempi l'intento critico e stucchevole il principio della citazione omaggio (che pure in Lone Ranger prolifera), rimane solo uno scheletro strutturale da rivestire con un ironico spettacolo pirotecnico.
Frizzi e lazzi in luogo di un archetipo sbiadito come la bandiera di Iwo Jima, un ottovolante di sensazioni effettistiche (l'incontro tra il Ranger e Tonto e l'ultima sequenza) punteggiate da piani di reazione attoniti su una maschera di sicura simpatia (in questo caso Johnny Depp) e sui ribaltamenti di alcune delle più evidenti consuetudini del genere.
Anche in assenza di una storia appassionante e di incassi che invoglino a proseguire sulla stessa strada. Rigenerare un fantasma donandogli l'unico corpo possibile. Senza ingannarsi su una possibile resurrezione. Per limitarsi a trascorrere due ore e passa con un sorriso compiaciuto sulle labbra, attendendo la successiva comparsa, come Gene Kelly in Brigadoon e vedendo se, tra le righe e forse involontariamente, questi ectoplasmi possano ancora dirci qualcosa sull'America del presente.