Sangue e proiettili. Dispersi nel tempo.
Questa rubrica, pur occupandosi solo delle scorie attuali di Western e Road Movie, è ben cosciente che fuori esista tutto un mondo. Un mondo che se ne impippa di Western e Road Movie. Com'è anche giusto che sia. E sebbene la rubrica non si chieda (quasi) mai apertamente perché continuare a occuparsi di questioni di cui il mondo s'impippa, a volte - spesso - si dimentica del sangue, dei proiettili e - se non deve fare il pieno - anche degli ottani, e guarda fuori, verso il mondo, naufragando dolcemente in tutto quel mare.
Senza elencare tutti i piaceri di cui si contorna questa rubrica quando non si propone come rubrica - che per i più sarebbero ancora meno interessanti di Western e Road Movie - capita che questa stessa rubrica legga. Non di Kerouac o di Leonard o di McMurtry e neanche di Tom Robbins (di cui però aspetta con impazienza la traduzione italiana della sua folle autobiografia Tibetan Peach Pie), ma che legga.
In uno di questi momenti, è possibile che la rubrica s'imbatta in Nel mondo a venire, il secondo romanzo di Ben Lerner, il quale, pur presentandosi, alla vista, come il compagno di classe che avresti volentieri vessato, è uno scrittore veramente sopraffino. Ebbene, tra progetti di romanzi su autori fraudolenti, temibili dilatazioni aortiche, malattie terminali simulate e fecondazioni assistite per amiche in scadenza biologica, Lerner nel suo libro desquama il concetto di tempo, ne sollecita le spire modellandole intorno a un racconto ciclico solo apparentemente immobile in cui, alla fine, «tutto è come prima, solo un po' diverso».
Una delle metafore di cui si nutre il romanzo è la visita del protagonista, un uomo di trentatré anni, alter ego di Lerner stesso, al Lincoln Center di New York, per vivere (più che vedere) l'installazione The Clock di Christian Marclay, un film di montaggio della durata di ventiquattr'ore. Come dice il titolo, un orologio dagli ingranaggi fatti di cinema. Uno dietro l'altro, frammenti, scene, inquadrature che illustrino direttamente attraverso quadranti di orologio o per mezzo di esplicite battute di dialogo, lo scorrere vettoriale del tempo. Un tempo, per di più, sincronizzato sul mondo esterno al Lincoln Center (o dovunque il film lungo un giorno sia proiettato), attraverso una corrispondenza perfetta tra ora sullo schermo e ora reale. Quella vera, ufficiale. Per fare un esempio, le 10 e 04 postmeridiane in cui il fulmine colpisce la torre dell'orologio, permettendo a Marty McFly di tornare nel 1985 in Ritorno al futuro, equivalgono esattamente alle 10 e 04 serali sull'orologio degli spettatori davanti allo schermo (e anche sugli orologi di quelli, ignari, che The Clock non lo stanno vedendo). E così via, minuto dopo minuto, ora dopo ora, film dopo film.
La rubrica non va oltre sul lavoro di Christian Marclay, non fa parte di ciò di cui si occupa abitualmente, però rimanda, per chi volesse, alla pregevole analisi dell'opera firmata da Daniel Zalewski sul "New Yorker" (che tra l'altro è anche la fonte utilizzata da Lerner e citata al termine del romanzo). Tuttavia, pur non approfondendo, la rubrica prende in prestito una riflessione di Lerner circa un possibile «ciclo circadiano dei generi cinematografici» per chiedersi: se il noir e l'horror sono generi tendenzialmente notturni (a distanza grosso modo di un paio d'ore l'uno dall'altro), se il war movie e l'avventura sono essenzialmente diurni, mentre la commedia si spalma senza problemi nell'arco di tutta la giornata e il melodramma si chiude nei suoi levigatissimi e coloratissimi interni e praticamente se ne frega se è mattina, pomeriggio o sera, esiste un'ora o un arco della giornata che siano peculiari del Western?
Ora di pranzo, verrebbe da dire, vista la celebre attesa del treno da parte dello sceriffo Kane in Mezzogiorno di fuoco. Un'ora diventata subito dopo indicativa dell'esplosione irrazionale della violenza, se perfino a metà degli an
ni Novanta si aspettava che la torre dell'orologio segnasse il mezzogiorno per dare il via al duello (Pronti a morire). Mezzogiorno o poco dopo, visto che un altro celebre treno, se puntuale, sarebbe arrivato alle 3 e 10 per portare in carcere il fuorilegge Ben Wade, mentre l'afa postprandiale si scioglieva allegoricamente in una pioggia finalmente ristoratrice (Quel treno per Yuma). E a cavallo di queste stesse ore si officiava l'attesa del terzetto capeggiato da Woody Strode e Jack Elam prima che sopraggiungesse il convoglio su cui viaggiava Harmonica in C'era una volta il west (anche se, per constatare il momento, bisogna fidarsi dell'imprecisa elasticità delle ombre presenti in stazione - ora piuttosto lunghe, ora corte, malgrado la continuità della scena).
Con buona approssimazione statistica, l'ora del Western è quella che va dall'aperitivo di tarda mattinata al momento della siesta (o della pennica, nelle versioni girate in Ciociaria): la calura è il correlativo oggettivo sul piano ambientale della tensione narrativa. Il sole alto ottunde le menti, le rende pruriginose, pronte allo scontro. La violenza esplode e l'eroe si consegna alla cavalcata verso il tramonto solo quando giustizia è finalmente fatta e l'equilibrio è rideterminato. Laddove il tramonto non rappresenta un'ora definita, quanto l'immagine di un empireo leggendario in cui l'eroe accede dopo aver adempiuto compiutamente la propria impresa. Non è un caso che il Western oltrepassi il tramonto solo quando l'eroe ha esaurito il suo compito storico e mitologico: in L'uomo che uccise Liberty Valance, Ransom Stoddard uccide il celebre villain del titolo nella piena oscurità, in modo che la verità resti per sempre nascosta in un anfratto della strada principale e tra le opportunità politiche della leggenda, mentre ne Gli spietati, William Munny è inghiottito da un autentico buco nero del villaggio di Big Whiskey dopo aver compiuto la sua personale vendetta, perfettamente consapevole della sua essenza fantasmatica in un genere nel quale ormai, da tempo, i meriti non c'entrano più.