Ottani. Ma anche sangue e proiettili. Tutto insieme. Un Road Movie con ombreggiature western.
Un Mojave solca le strade americane con la sua Harley Davidson Panhead del '56. Ha commesso un crimine per vendetta e ora è inseguito da un arcigno agente dell'FBI lungo tutto quello che una volta era il selvaggio West. Ha commesso un crimine per ovviare a un sopruso e a un'ingiustizia, ma poco importa, perché la giustizia bianca è la nemesi di Stato e ti trova dovunque, come in un noir anni '40 sulle coppie on the run.
Uscito a luglio in America, Road to Paloma è l'esordio nel lungometraggio dell'attore hawaiano Jason Momoa, fisico statuario e aria sbattuta da bel tenebroso (una sorta di Pablo Osvaldo inguainato in assecondante pellame e dall'identico score sottoporta, forse dovuto a un accenno di strabismo), il quale recentemente è stato anche Conan il barbaro per Marcus Nispel e Khal Drogo ne Il trono di spade. Il bel tenebroso di cui sopra, chiamato Wolf, è inseguito dal perfido e glaciale agente federale Williams perché ha vendicato lo stupro e la conseguente morte della madre frantumando le ossa dell'assassino e rendendolo simile a delle maracas (la battuta è nel film, non mia), ma solo dopo, si badi bene!, che la giustizia dei visi pallidi ha minimizzato la gravità del crimine non condannando l'assassino.
Sulla sua strada Wolf incontra Cash, il cantante di un gruppo rock che con una testata ha spaccato la faccia sul palco al chitarrista esibizionista del suo gruppo prima di dire "ho altri progetti: me ne vado" (è un'aspirante rockstar, inutile chiedersi perché non se ne vada dicendo soltanto "adiós!"). Se la coppia di motociclisti sulla strada vi fa venire in mente qualcosa, quel qualcosa è esattamente quello che vi deve venire in mente: Road to Paloma sciorina tutto il campionario presente in un Road Movie classico, in quella golden age durata non più di cinque anni in cui il cinema americano (si) illuse sulle possibilità di un ribellismo subito frustrato (spesso già nella stesso film) e riportato nei cardini della legalità e del conformismo. Il guaio è che arriva con quarant'anni di ritardo.
Road to Paloma non rilegge, non omaggia, tanto meno rilancia. Forse, ma solo forse, velatamente accusa. Il resto è esaltazione dello stereotipo. Narrativo e di genere, quando si decanta il senso di libertà che il biker avverte sulla strada oppure quando si ribatte alla richiesta di una sosta con l'ineluttabilità del movimento (Kerouac lo diceva già nel '51 e non aveva neanche la patente). Ma anche ambientale. Se già Easy Rider fu a posteriori accusato di proporre immagini da National Geographic (da Barbara Klinger), Road to Paloma si bea in un lirismo paesaggistico che pare architettato dai due protagonisti (che sono anche sceneggiatori) solo per osservarsi in uno scenario leggendario con lo stesso intento con cui si fa incetta di selfie (chiediamo scusa all'anima inquieta di Dennis Hopper e a László Kovács per l'irriverente accostamento). La comunque suggestiva fotografia di Brian Mendoza crea un'autentica immagine cliché, una cartolina suadente e avventurosa per profili da social network o sfondi del PC.
Potremmo addentrarci in un'amena analisi saltellando tra archetipi e modelli mitopoietici, tirarcela parlando di dispositivi significanti o di sistemi sovradeterminati di riferimento, ma questa rubrica ha il solo merito di conoscere il senso del limite e di avere un immenso rispetto per i suoi lettori (qualora ce ne fossero), per cui si limiterà a pubblicare due fotogrammi esemplificativi di scenari già visti e assunti migliaia di volte e si predisporrà all'accondiscendenza, dicendo che sì, alla fine, Road to Paloma, pur non avendo pretese, è una ventata di fresca nostalgia assunta direttamente in volto e respirata a pieni polmoni. Come sentire all'improvviso Stella stai di Umberto Tozzi e sprofondare nel passato, quando la mamma ti chiamava dal balcone perché la pasta era pronta.