Sangue e proiettili. Ultimo atto.
Fin da quando esiste, ossia da due anni, la rubrica si è spesso lamentata dell'inconsistenza (numerica e artistica) del western del dopo-Spietati. Forse lamentarsi è una parola grossa. Diciamo che ha constatato. Ha sottolineato l'esaurimento del suo ruolo storico, ha recriminato sulla sostanziale inutilità di raccontarne ancora una volta le gesta, si è indignata per la pochezza di gran parte di quei rari esempi che ancora si ostinano a comparire sugli schermi cinematografici (molto meglio gli esempi televisivi). Ha biasimato l'omaggio e la citazione come unica spinta del racconto, ha fatto i salti mortali per testimoniare quel poco che ancora si muove tra sangue e proiettili nelle produzioni americane. Con una certa vena pessimista e disincantata e un tono crepuscolare, tanto per rimanere in tema.
Poi capita che ci s'imbatta in un piccolo film, scritto e diretto da un musicista scozzese, tal John Maclean, ex Beta Band e The Aliens, che ha girato la sua opera prima tra Scozia e Nuova Zelanda fingendo di trovarsi in Colorado, e si rimanga realmente impressionati. Slow West è un piccolo film, intorno all'ora e venti di durata, pochi ma sapienti rilievi in fase di scrittura per caratterizzare i personaggi e le loro vuote aspirazioni, una regia attenta e rigorosa pronta a slanci lirici e pittorici di sorprendente intensità.
Slow West racconta di Jay Cavendish, un diciassettenne scozzese (Kodi Smit-McPhee) partito alla volta del Colorado per ritrovare Rose (Caren Pistorius), la ragazza di cui è innamorato, che ha attraversato l'Oceano in fuga con il padre dopo un increscioso incidente. Jay incontra Silas (Michael Fassbender), un ex desperado che dietro una cospicua somma di denaro si offre di difenderlo dalle insidie che piovono da ogni parte e di condurlo a raggiungere la ragazza. Ma su questa pende una taglia di 2000 dollari e, involontariamente, Jay e Silas guidano da lei una serie di bounty killers che vogliono riscuotere la somma.
Trama semplice, anche se il motivo che muove il protagonista non è la consueta vendetta, ma un amore inesauribile, che oltrepassa i mari, sfida le insidie di un mondo sconosciuto e la violenza che in esso si annida per riabbracciare la donna amata. Se l'amore è l'insolito filo conduttore, l'aspetto che permea tutto il lavoro di Maclean è l'estraneità rispetto a una realtà sconosciuta, vista con gli occhi vergini di un europeo.
Non un argomento completamente nuovo: l'aristocratico Richard Harris in Un uomo chiamato cavallo, ad esempio, entrava in contatto suo malgrado con la vita dei nativi e pur subendone la violenza ne rimaneva stregato. Nel caso di Slow West agisce anche un'estraneità d'autore. Elliot Silverstein era (ed è ancora) di Boston, Dorothy Johnson, dal cui romanzo il film era tratto, dell'Iowa, ed entrambi illustravano per riabilitarla una cultura con la quale si erano confrontati da sempre.
Maclean viene dalle brughiere e dai firth, ha suonato per anni una tastiera e ha frazionato campionamenti, ha girato solo due cortometraggi che con il western non hanno nulla a che fare (l'ultimo, Pitch Black Heist, ha vinto il BAFTA nel 2012), ha simulato le praterie dell'Ovest in Nuova Zelanda e ha utilizzato attori australiani, britannici e sudafricani. Lo sguardo di Jay è il suo. Una questione pragmatica, al di là dell'identificazione della macchina da presa.
Tutti i personaggi hanno un'origine definita che risuona nell'accurata ricostruzione dei vari accenti, gli scozzesi, gli svedesi, l'antropologo tedesco, addirittura i congolesi (interpreti di un surreale intermezzo di musica africana sul suolo del "Colorado"), mentre l'America e il West paiono emergere soltanto come immagine di violenza, sopraffazione, ampi spazi da attraversare per colmare la misura che separa dal compimento dell'impresa. Quello di Jay è strutturato indubbiamente come un classico percorso di formazione, ma il suo tragitto (materiale e morale) è prima di tutto un confronto con una lunga catena di cliché che Maclean dissemina sul suo viaggio e che si premura di filtrare attraverso uno sguardo da Perfect Stranger.
«Sono il figlio di Lady Cavendish», «Siamo tutti figli di puttana», risponde accondiscendente il vecchio ex soldato mentre gli punta addosso un fucile: è il rude ingresso di Jay nel West, il quale, fino a poco prima, osservava nel nitore della notte le costellazioni di cui conosce tutti i nomi. Un'antitesi su cui Maclean fonda tutta la sua visione esternalizzata, anche riguardo a quell'amore che muove il sole e le altre stelle e che si scontra crudelmente con una violenza cieca e assoluta. Jay è colpito al cuore (non a caso) dalla donna amata, che nella frenesia di un assedio à la Distretto 13 (come ammesso dallo stesso Maclean) non lo riconosce. «Aveva il cuore nel posto sbagliato», riconosce Rose affranta, una volta realizzato l'accaduto, alludendo all'inconciliabilità tra l'anima e il luogo in cui nutrire i sentimenti. E Maclean dipinge un'icona di questa incompatibilità con un intenso primo piano di Jay, morente, mentre una lacrima ne solca il volto afflitto e ormai tristemente consapevole.
Nell'osservare l'estraneità di un neofita europeo alle prese con il cinema americano per eccellenza filtrato attraverso gli ambienti australi, è d'obbligo una piccola notazione sulla concezione dello spazio che accompagna il viaggio di Jay e Silas fino alla casa di Rose e del padre, immersa in un giallissimo campo di grano. A differenza di moltissimi dei western recenti, la fotografia di Robbie Ryan (Philomena, Jimmy's Hall) ha toni squillanti e accesi, in controtendenza con le opache tinte vespertine dei survivor-western degli ultimi vent'anni. L'immagine pare incurante di evidenziare i riferimenti a una Storia in dichiarata dissolvenza quanto piuttosto fiera di immergersi in uno scenario smagliante e levigato, nel quale la brillantezza dei colori è pura scelta d'autore.
Coerentemente con il suo viaggio di scoperta del West, Maclean esibisce lo spazio dilatandolo, estendendolo come un fondale, allargando l'orizzonte e allungando le proporzioni.
Non cerca la via per una nuova epica rispetto all'erosione del gigantismo operata dal western dai 70s in avanti, quando limitare il paesaggio, comprimerlo con dispositivi ottici (primo fra tutti il teleobiettivo), significava anche criticare l'eroismo idealizzato del genere. Slow West individualizza le esigenze, non torna indietro nel tempo. E le assoggetta al significato della storia che racconta, all'illusione di Jay, al paradosso per cui l'avvicinarsi a Rose rappresenta un progressivo allontanamento dal suo sogno d'amore.
Un paradosso riflesso anche nel formato adottato, 1,66:1 (conosciuto anche come European Flat, tanto per rimandare al tema della visione all european), ratio che racchiude i personaggi in una gabbia rappresentativa, spostando la meta agognata in una vastità prossima ma difficilmente raggiungibile (Jay vede sullo sfondo la casa in cui abita Rose, ma subito dopo è legato a un albero da Silas che non vuole gli capiti nulla: in un concetto solo, guardare ma non toccare).
Detto quello che aveva da dire su uno dei due western più originali della lunga fase post mortem (l'altro è Meek's Cutoff di Kelly Reichardt, del 2010), la rubrica saluta e se ne va. Ringrazia chi ha avuto in questi due anni la pazienza di seguirla e si allontana lentamente lungo l'orizzonte rossastro che l'aveva partorita.
Hasta luego, compañeros.