Faccio ammenda. Pubblica, se qualcuno dovesse avere la compiacenza di leggere queste righe. Nell'ultima puntata della rubrica avevo citato l'attesa per Sweetwater, proiettato al Torino Film Festival dopo la presentazione al Sundance nel gennaio di questo stesso anno. Mi aspettavo, come l'assetato nel deserto, «polvere, cappellacci, cavalli, spari e morti violente», senza illudermi di vedere un «lavoro indimenticabile». Orbene, l'assetato si è almeno abbeverato con soddisfazione, pur restando nel deserto.
Sweetwater di Logan Miller, ora non più tal (anche perché ha presentato il film al pubblico torinese con il fratello gemello Noah, sceneggiatore), è veramente una sorsata di acqua fresca che non segnerà il ritorno di un genere che-non-può-più-tornare, ma che permette di trascorrere una serata piacevole non rimpiangendo particolarmente il tempo che fu.
Sweetwater è il regno dell'addensamento straniante e della disgregazione degli snodi narrativi, coerentemente con una pratica che il western coltiva almeno dagli anni Settanta e che, indipendentemente dal western, nel cinema americano del dopo 11 settembre si è inasprita maggiormente, mostrando i cattivi ancora più cattivi di quanto non fossero in precedenza. Segno dei tempi, di paure sempre più diffuse e di contorni sempre più sfumati.
Non si tratta tanto di una caratterizzazione iperbolica, per quella ci pensa Tarantino. Che, sia chiaro, non ha per niente rilanciato il western, semmai l'ha riesumato un solo istante per poi cremarlo definitivamente (Tarantino gioca su un altro campo, individuale: Django Unchained non è un western, è un film-di-Tarantino che utilizza le logiche di genere unicamente per ambientare e destrutturare - in questo rigido ordine). Certo, qualche eco tarantiniana è inevitabile che compaia anche nel film dei Logan, ad esempio nella fine ingloriosa cui vanno incontro al termine del cameo che si ritagliano oppure nella figura della sposa vendicatrice, ma i due gemelli assumono il tarantinismo come un riflesso, un inevitabile specchio dei tempi cinematografici cui pare sempre più complicato sottrarsi quando si eccede dalla linearità della rappresentazione.
L’eccesso dei Logan non è iperbole, come in Tarantino, ma densità, accumulo, sommatoria. Il profeta Josiah, cui dà corpo sulfureo un mefistofelico Jason Isaacs, è l’epitome della cattiveria, non un semplice villain, seppur di fascino: elegante nell’eloquio, abile manipolatore delle menti, sessuomane, incestuoso, sadico e assassino, un vertice maligno che concentra in un unico personaggio molte nefandezze precedenti e qualcuna nuova (l’incesto, mai così esplicito nel western).
Lo sceriffo Jackson, interpretato da un consunto Ed Harris, è, di contro, il braccio armato attraverso cui un Bene ormai sfibrato e svigorito da anni di antieroismo militante dovrebbe riaffermare la sua forza, come da logica del genere. Un personaggio allegorico che si ciba di paradosso e di ironia, che cita Byron mentre si trova legato a testa in giù ad una croce in presenza delle concubine del profeta che lo battono con polverose scope di saggina. Oppure sollecito nel licenziare brutalmente lo sceriffo corrotto del villaggio sulle note circolari de Il bel Danubio blu di Strauss, assecondandone la ritmica sgangherata con una coreografia surreale e avvolgente.
La Sposa, Sarah Ramírez (January Jones), è l'emblema algido di una vendetta condotta meccanicamente, priva di qualunque passione, cieca e impassibile, perseguita come prassi di una convenzione (di genere, appunto) il cui intento spettacolare va ben oltre la motivazione narrativa.
Sweetwater amplifica una tendenza alla rarefazione del racconto esistente già dagli anni Settanta ma spesso abbandonata nei comunque sporadici esempi recenti a causa della volontà massimalista di riferirsi nostalgicamente all'âge d'or: il filo esilissimo che lega gli elementi della storia è solo un labile pretesto per il trionfo dei personaggi in essa immersi. Personaggi che altro non sono se non una condensazione derivativa di stereotipi già visti, anche se mai tutti insieme. Lo scopo è il divertimento effervescente, il cinismo occhieggiante, il cazzeggio dell'autore irriverente eppur nostalgico.