Il 24 aprile scorso Shirley MacLaine ha compiuto gli anni. Cifra tonda, che non riveleremo perché non sta bene, ma diremo solo che sono stati anni spesi in maniera sublime, con bellissimi film, grandi interpretazioni e un registro che ha spaziato elegantemente fra la commedia, il dramma malinconico e ritorno. Curiosamente, «Cineforum» ha parlato di due dei suoi film più famosi in uno stesso numero, il 239 del novembre 1984: L'appartamento di Billy Wilder, con un Flashback a cura di Stefano Bortolussi, e La congiura degli innocenti, suo esordio sotto la direzione di Alfred Hitchcock, con un articolo di Adriano Piccardi per uno speciale dedicato a cinque opere del Maestro inglese. «Ridere e sognare sono il segreto per vivere meglio», ama dire Ms. MacLaine: la sua vita e il suo lavoro lo dimostrano. Grazie infinite di tutto e tantissimi, carissimi auguri, Shirley!
«Il primo novembre del 1959, la popolazione della città di New York raggiungeva la cifra di 8.042.783. Se si facevano stendere tutte queste persone una dopo l'altra, immaginando un'altezza media di cinque piedi e mezzo circa, essi avrebbero raggiunto, partendo da Times Square, la località di Karachi, nel Pakistan. Conosco cose come queste perché lavoro per una grossa compagnia di assicurazioni, una delle cinque più importanti del paese. […] Il mio nome è C.C. Baxter. Vivo vicino alla Sessantesima West, proprio a un isolato dal Central Park. Ho un appartamento veramente delizioso – niente di incredibile, ma qualcosa di dignitoso – quello giusto per un impiegato. L'unico problema è che non posso andarci quando voglio». Con questa sorta di autopresentazione/confessione allo spettatore inizia uno dei film più lucidi e amari di Wilder, e forse quello più “segnato” da una volontà di critica che oltrepassa il livello della pura e semplice “denuncia sociale” a sfondo drammatico (L'asso nella manica), e si fa discorso più complesso e al tempo stesso aperto. L'appartamento è uno dei film più fraintesi del maestro euroamericano; se la critica italiana (escludiamo al solito i quotidiani) ne ha colto la complessità e le numerose sfaccettature, non così si può dire di quella americana (che d'altra parte mai è stata tenera con uno dei più salaci commentatori del costume yankee).
Accusato a turno di “eccesso di cinismo” (così Sarris, almeno sino ad una specie di parziale “riabilitazione” operata con un articolo per «Film Comment») e di “sentimentalismo” (specie per quanto riguarda il finale, che d'altra parte è un “momento” cinematografico superbo e di assoluto rilievo nella carriera di Wilder), l'atteggiamento del regista nei confronti del materiale umano e narrativo di questo film ha suscitato critiche e perplessità, soprattutto tra i cultori ed i sostenitori di un cinema “chiaro”, “che mira dritto al bersaglio”, che “non perde colpi”, tanto per elencare alcuni dei luoghi comuni su cui si confida per valorizzare certi “capolavori” di autori il cui universo espressivo è in realtà poco più esteso del proprio giardino di casa. Non deve trarre in inganno I'Oscar vinto dal film e dal regista nel 1960, anno della sua uscita: il premio hollywoodiano, si sa, è pura finzione, e non corrisponde ai reali “movimenti” critici, e spesso nemmeno a quelli del pubblico. In realtà, L'appartamento visto (rivisto) oggi vale proprio, al di là del suo valore ritmico (della perfetta rispondenza di tutte le sue parti), per la voluta ambiguità di visione di Wilder e di Diamond, maestro di sceneggiatura. Per il suo mischiare le carte, per i continui stimoli che suscita sullo spettatore per poi subito “tradire” l'assunto di partenza. Non a caso abbiamo riportato, traducendolo (ci scusiamo con i filologi) molto liberamente, il brano di apertura del film. La stessa cosa hanno voluto fare, in uno splendido libro, due critici inglesi, Neil Sinyard e Adrian Turner (Journey down Sunset Boulevard», ed. Bcw, Londra 1979), procedendo in seguito ad analizzare dettagliatamente gli sviluppi e le “aperture” del discorso wilderiano di partenza.
Come giustamente notano Sinyard & Turner, nei due-tre minuti del monologo iniziale (sottolineati da una serie di sequenze aeree di New York, e da un magistrale movimento che dall'universale della “Big Apple” ci porta al particolare della compagnia di assicurazioni, e infine al minimale del povero C.C. Baxter) sono introdotti a regola d'arte tutti gli elementi che possono contribuire a una esatta definizione della situazione, professionale e personale, del protagonista. La sovrappopolazione delle metropoli. Il terziario. Lo spossessamento e l'alienazione del lavoro. L'informazione di tipo televisivo/statistico. Ma, a parte il fatto che, con l'abituale (per Wilder) “scatto di sceneggiatura”, Baxter ha introdotto tra le righe il suo dramma personale, che è ben più grave e preoccupante di qualsiasi statistica sul “malessere della civiltà”, regista e sceneggiatore provvederanno in seguito, sequenza dopo sequenza, a tradire il senso originario di ogni discorso. L'appartamento inizia, infatti, con le prime battute del discorso di Baxter (la singolare “unità di misura” adoperata per illuminare lo spettatore sull'entità della popolazione newyorkese), come una brillante commedia. Bastano però poche manciate di secondi perché il tono scanzonato si trasformi in commento amaro, con una delle inversioni (o estensioni) tanto tipiche del miglior Wilder. La considerazione che chiude il monologo del protagonista viene così a rappresentare il primo spostamento rispetto al normale diagramma della narrazione filmica.
Più in generale, L'appartamento trova, come già detto, la sua misura nel non volersi “decidere” tra commedia e dramma, nel trovare, più compiutamente e con più successo che mai, quella via intermedia tipica del motto di spirito wilderiano. Le piccole notazioni ironiche di Baxter e dei suoi colleghi, i mutamenti improvvisi nel comportamento del principale che viene a sapere del genere di “traffico” intrapreso nella sua ditta e che, lungi dal combatterlo come a prima vista pareva, è perfettamente intenzionato ad approfittarne; la calda, ironica umanità di Fran, la ragazza dell'ascensore, e la sua improvvisa decisione di togliersi la vita, sono soltanto alcuni dei “nodi” della sceneggiatura che sottolineano l'ambivalenza wilderiana. Ambivalenza che viene espressa tanto più efficacemente a livello puramente visivo, con i contrasti tra le ambizioni “ambientali” di Baxter (l'ufficio personale) e la sconfinata, alienante distesa di scrivanie dell'inizio; tra l'immagine dell'ascensore (il “luogo di Fran”) e dei vuoti corridoi che introducono a ogni piano (piani che Baxter, grazie alle sue ripetute “prestazioni”, risalirà lentamente, in un moto verticale complementare e soltanto apparentemente contrario a quello orizzontale della vicenda).
A un altro livello ancora, l'attenzione dello spettatore è richiamata in modo del tutto particolare sull'appartamento di Baxter, centro tematico e contenitore drammatico, estensione metropolitana dei tanti importantissimi luoghi wilderiani (la villa hollywoodiana di Norma Desmond in Viale del Tramonto, ad esempio, o la caverna/prigione di L'asso nella manica, oppure ancora la triade bar/albergo/appartamento di Irma la dolce, altro delizioso film poco capito…). L'ambiguità qui è connaturata alla stessa doppia natura di ogni sistemazione della moderna metropoli, ed in special modo di New York, sulla realtà edilizia della quale ci si potrebbe basare per redigere la storia di un nuovo genere cinematografico. Rifugio e gabbia dorata, nido d'amore e luogo principe della solitudine, sogno ed incubo dell'abitatore: l'occhio particolarmente attento di Wilder oscilla tra i poli con un moto che solo apparentemente disorienta, ma che in realtà induce lo spettatore all'identificazione con il protagonista.
L'alienazione è poi infinitamente più profonda, poiché Baxter non solo vive in un bugigattolo che è costretto a riconoscere come un “buon appartamento” (e su questo molti, troppi Simon, Ross e compagnia bella hanno costruito filmetti da non ricordare…), ma spesso non ci può nemmeno vivere, spesso l'appartamento non è più suo. E, ironia della sorte, diventerà di nuovo completamente suo proprio quando si tramuterà, in conseguenza a un'altra delle classiche intuizioni wilderiane, da luogo di vita (pur se alienata, “fuori da sé”) a luogo di morte: dopo il tentativo di suicidio di Fran.
Proprio il precipitare degli eventi dopo il drammatico tentativo della ragazza porta il film velocemente verso il finale, che non a caso è stato il più frainteso ed il meno apprezzato aspetto dell'opera. Si è generalmente argomentato che l'ultima sequenza (il nuovo incontro tra Baxter e Fran) avrebbe stonato con il generale tono amaro della commedia; e ci si è gettati a pesce sul presunto “sentimentalismo” di Wilder, quando sino a poco prima si argomentava senza posa sulla sua altrettanto presunta “mancanza di sentimento”. In realtà il finale, come bene fanno notare ancora Sinyard & Turner, è un ulteriore passo avanti verso il raggiungimento di quel risultato di spaesamento che Wilder si proponeva di far raggiungere allo spettatore. Esaminando la sequenza da vicino, non si potranno non notare alcuni essenziali elementi, che a un primo livello di lettura possono sfuggire. In primo luogo l'appartamento non è più di Baxter, e questa volta nel senso reale e totale del termine: egli se ne stava infatti per andare, prima che Fran arrivasse a fargli visita. In secondo luogo, e non subordinatamente, sono entrambi per amore o per forza senza lavoro. La macchina da presa di Wilder indugia sui particolari della casa di Baxter, che ora, semivuota, pare realmente “inumana”.
L'apparenza dell'happy ending è dunque un altro di quei magistrali “colpi di mano” registici, e rende l'idea di quanto complessa, di quanto perfetta sia la “macchina spettacolare” approntata da Wilder e Diamond: un meccanismo il cui scopo è la lucidità dello smascheramento, cui si giunge con uno sguardo altrettanto lucido. Che sa riconoscere, cioè, che qualsiasi finale in una vicenda come questa è un fittizio arrestarsi prima del vuoto.
[…] In La congiura degli innocenti tema e situazioni ritornano, con la leggerezza e l'inoffensività dei piccoli vortici che percorrono la corrente di un ruscello, ma non per questo meno determinanti nell'economia generale del racconto che, nonostante il suo tono inusuale nella filmografia del regista, è comunque prodotto hitchcockiano al cento per cento. La fossa di Harry, che viene riempita e svuotata dal corpo del defunto più volte prima che la sua odissea finisca, con un ritorno alle condizioni di partenza; il girotondo inusitato degli “assassini” che accumula potenziali colpevoli per una morte che non ne reclama nessuno (probabilmente: ma, se tutti avessero contribuito inconsapevolmente all'esito letale?); la ricomposizione del cerchio a cui il percorso narrativo conduce con il finale che, come tutti i déja vu, introduce anche la componente del leggero mancamento-vertigine in cui va ad annullarsi l'intervallo temporale (reale o immaginario) tra le due percezioni.
Tutto questo viene messo in scena da Hitchcock con il divertimento e l'ironia che se si considerano le sue preferenze personali per questo piccolo gioiello di humor macabro darebbero molto da riflettere su quali fossero i reali rapporti intrattenuti da questo autore con il mondo dei fantasmi e delle ossessioni, estetiche e morali, che prende forma nei suoi film. Il divertimento è palese nella scena in cui il giovane rappresentante della legge entra nella casa dove tutti i responsabili della “congiura” stanno riuniti dopo avervi portato il morto; Hitchcock non ci fa sapere dove sia quest'ultimo, e lascia credere che si trovi in un piccolo armadio a muro nel soggiorno, la cui porta tende continuamente ad aprirsi finchè il pittore Marlowe non vi si appoggia decisamente, per non spostarsi più. Solo in un secondo momento, quando il morto viene mostrato allungato nella vasca da bagno, risulta in tutta la sua evidenza l'ironia dell'autocitazione (Nodo alla gola) e la scoperta volontà di giocare fino in fondo con le medesime proprie metafore.