Piccolo spazio pubblicità. Un recente sondaggio ha ridimensionato, facendolo regredire dal primo al quarto posto nella classifica delle creme gianduja spalmabili, il primato del più celebre e diffuso di questi prodotti. La notizia non poteva non farci ricordare la scena più gustosa (è certamente il caso di dire) del morettiano Bianca, splendido film quarantenne uscito giusto di questi tempi nel 1984. Per un uomo il cui dramma è l'eccesso di rigore, e di non riuscire a capire, né a farsi capire, dal mondo e dalla gente che lo circonda (soprattutto gli amici, ma anche le piante), la famosa specialità spalmabile è l'ultimo rifugio, un supporto solidissimo benché insufficiente. Bianca di Nanni Moretti, una commedia che tuttavia cela in sé un dramma lancinante, venne recensito da Stefano Masi su «Cineforum» n. 234, maggio 1984, con un articolo di cui riproponiamo un ampio stralcio.
Quarto film per Nanni Moretti, un regista che non ammette mezze misure: come i suoi precedenti lavori, anche Bianca è da amare o da odiare, da accettare nella sua interezza o da rifiutare in blocco. Ciò accade per due motivi. Un primo motivo è, per cosi dire, formale: quello di Moretti è un cinema un poco sgrammaticato e privo di piacevolezze cinematografiche, tale da non brillare mai né per il ritmo della narrazione, né per la qualità della mise en scène. E non lo si può mai salvare in seconda battuta con un “però è ben fatto”. La forma in Moretti non sa mai essere accattivante. Il secondo motivo si gioca al livello del contenuto, che è accattivante sì, ma solo per pochi. Infatti, la visione del mondo che emerge dai film di Moretti è legata agli umori e alle esperienze di una sola generazione: chi non ha vissuto, direttamente o almeno indirettamente, questo genere di esperienze fa fatica a essere coinvolto nei meccanismi delle sue commedie.
Parlare di commedia non è fuor di luogo. Moretti aggiunge un mattoncino alla muraglia della commedia all'italiana, che con lui si rinnova, corpo di gattopardo, per non cambiare e per conquistare il territorio di quella generazione che frequentando le sale d'essai scoprì tra la fine degli anni 60 ed il principio degli anni 70 il cinema d'autore, da Bergman a Buñuel, da Makavejev a Polanski, e imparò a usare Marx e Freud come utili grimaldelli interpretativi. Di tutte queste cose c'è in Bianca solo qualche suggestione lontana e felicemente superficiale. La sua superficialità è lieta e ben giocata. Anche la cinefilia di Moretti è superficiale. Così i suoi richiami al film noir coniugano un po' troppo facilmente un malinconico commissario melvilliano con due segugi alla Thomas Milian. Moretti sa raccontare, ma il suo è un cinema fatto a uncinetto. Vi affiora una certa aria da superotto di famiglia (non bisogna dimenticare che Nanni Moretti ha alle sue spalle un passato di cineamatore), in cui per carenza di cast il nonno con una benda in testa fa la parte del Corsaro Nero e la figlia della portinaia quella di Yolanda. Certo, anche questa è una partita con la fantasia. E Nanni se la gioca bene, con garbo e con semplicità. Ma resta nel suo stile un'aria di tinello borghese con ristagno di odori di cucina. Niente di male. Ci giunge, di tanto in tanto, l'aroma fragrante che hanno tutte le cose buone “fatte in casa”. […]
One-man-show - In Bianca Moretti fa ricorso ad alcuni caratteristi di buon livello, come Remo Remotti. Ma li usa da dilettanti (gli attori non professionisti sono un'altra cosa: sono quelli che riescono a ridare sullo schermo la propria verità), creando per loro personaggi-tipo, caratterizzati da un certo gusto per la macchietta, estremizzati fino al ridicolo, con una ingenuità che è comune al bozzettismo della commedia all'italiana. L'unico personaggio dotato di spessore nei film di Moretti è quello che l'attore-regista costruisce per se stesso. I precedenti film di Moretti erano tutti costruiti da lui e per lui. L'egocentrismo è una caratteristica comune a un gran numero di formule di spettacolo, dal one-man-show del cabaret allo star-vehicle cinematografico. Moduli del genere non sono sempre “poveri”, ma finiscono inevitabilmente per costruire il divo.
L'egocentrismo di Moretti appare mitigato in Bianca, dove la sceneggiatura si sforza di costruire una situazione e un ambiente attorno al personaggio principale. In precedenza i film di Moretti non erano altro che occasioni di protagonismo, impalcature di sostegno al protagonista. Impalcature, peraltro, tanto deboli che finivano per mettere in risalto lo sfrenato esibizionismo dell'attore-autore. In Io sono un autarchico Moretti è ancora nient'altro che un ingenuo e poetico protagonista; con Ecce Bombo comincia ad affiorare un certo amore per il protagonismo puro. In Bianca, l'opera certamente più equilibrata della sua filmografia, Moretti non è più metteur en scène di se stesso. L'acquisto di un collaboratore in sede di sceneggiatura (Sandro Petraglia) conferisce maggior sostanza alla materia. L'ambiente prende corpo, anche se appare ancora un po' sfocato e inverosimile. Al personaggio protagonista viene fornito un notevole spessore drammatico, uno sviluppo, una serie di occasioni narrative con cui confrontarsi e attraverso le quali crescere. Il film è un procedere alla scoperta dei misteriosi aspetti della personalità del professar Michele Apicella. La sceneggiatura si sforza di costruire anche i personaggi secondari, ma con minor successo: essi non sono altro che satelliti che orbitano attorno a un pianeta enormemente più grande di loro. Il Liceo Marilyn Monroe è una scuola popolata da professori da operetta. I vicini di casa di Michele sono dei manichini. Ignazio e Maria niente di più. Per fortuna, c'è Bianca: si tratta del primo personaggio vero del cinema di Nanni Moretti che non sia lui stesso.
L'immagine della donna - Alter ego femminile di Michele Apicella, Bianca è un personaggio che, pur essendo privo di un qualsiasi approfondimento drammaturgico, arricchisce in maniera determinante il film.
Nell'interpretazione quasi stilnovista di Laura Morante, Bianca è un'apparizione, immagine stilizzata della bellezza. La sua mancanza di spessore è qui perfettamente funzionale al racconto. E va a completarsi con la fisicità esuberante del professor Michele Apicella. Il rapporto tra i due personaggi è la cosa meglio riuscita del film. Michele e Bianca vanno l'uno verso l'altra, inevitabilmente, indossano entrambi la candida veste della diversità in un mondo piatto e conformista, si attraggono, per effetto di quella forza di gravità che è il destino cinematografico degli eroi. Il bianco è il colore della pulizia e della verginità, della saggezza e della non-compromissione. Bianca è la rappresentazione della bellezza femminile nel pensiero esaltato di un maschio moralista; porta in volto la purezza di quella metrica greca che non si insegna più al Liceo Marilyn Monroe, regno della nuova barbarie. Il modello della sua bellezza è dunque un segno di diversità.
Il corpo-immagine di Bianca è un'appendice di Michele, una costruzione mentale, la materializzazione momentanea di un ideale femminile che egli si è andato progressivamente formando, In negativo e per esclusione: per lui, la donna non può essere quell'animale di cui il play-boy Siro Siri va a caccia; non può essere la vecchia amica Maria, che teorizza il laissez-faire dei sentimenti; né la vicina di casa che tradisce in scioltezza il suo compagno. Deve essere qualcosa di diverso. Ed eccola comparire, Bianca, volto pudico in cima a un lungo collo di cigno, così risplendente e diversa dalle altre presenze che popolano il Liceo Marilyn Monroe. Michele la raggiunge, le gira attorno, la seduce (violando tutte le regole del mestiere del seduttore) e la fa sua. Ma andare oltre gli è impossibile. D'improvviso Bianca sembra svanire. Michele la allontana bruscamente e proclama l'impossibilità della sua esistenza nel mondo materiale. Bianca resta un sogno, il sogno irrealizzabile della purezza.
Michele Apicella, il professore - Calvinista nel paese della cuccagna, Michele Apicella è un personaggio felicemente antipatico, circostanza apprezzabile in un cinema sempre più popolato di bamboccioni di facile simpatia. Lui è un cattivo, un bad guy infilato in una commedia, questa è la chiave del film, della sua originalità e del suo successo, un monsieur Verdoux trentenne che uccide solo le persone alle quali vuol bene. Moretti costruisce con gran cura e con grande amore questo personaggio, in tutte le fasi della realizzazione, ma soprattutto in sede di sceneggiatura e in sede di recitazione.
Il professor Michele Apicella è un filosofo della scarpa. Dai piedi risale all'anima, agli umori, ai sentimenti. Interpreta il modo di essere dall'andatura. Il suo feticismo è una scienza. Studia gli uomini e i loro comportamenti come un entomologo studia gli insetti; li classifica perfino. Arriva a fare la storia degli anni di fuoco della sua generazione attraverso alcuni modelli di calzature. Qui il Moretti sceneggiatore è geniale (la cosa è da estendersi al cosceneggiatore Petraglia), gioca con ironia tra le righe del discorso, strizza l'occhio ai suoi coetanei, è sapiente e garbato nel riportare indietro agli anni 60 e 70, evocati con semplicità ed efficacia.
Apicella è un acuto osservatore dei piccoli dettagli, un eroe assalito dal caos delle cose e dei sentimenti che regna attorno a lui. La sua reazione è una difesa a oltranza della propria integrità morale, difesa che, gradino dopo gradino, lo conduce alla pazzia e all'omicidio plurimo. L'evoluzione del personaggio è graduale, quasi inavvertibile, tanto è ben condotta. Sin dalle prime immagini, Moretti ce lo presenta in maniera ambigua: entra in bagno, versa dell'alcool nel lavandino e gli dà fuoco. Sembra il gesto di un piromane. Dopo un attimo comprendiamo che quello è solo un modo per disinfettare. Un modo radicale. Disinfettare col fuoco. Allo stesso modo le streghe si bruciano col fuoco: la fiamma purifica il corpo dei peccatori. Poste queste premesse, tutto il successivo sviluppo del personaggio rientra in una linea di evoluzione perfettamente razionale. Con lucida follia, Michele esporrà al commissario il movente dei suoi omicidi: gli amici lo hanno deluso, lui doveva intervenire, doveva far qualcosa!
Michele agisce spinto da una moralità radicale che lo acceca. Ma non per questo rinuncia al dolce della vita. Assetato di dolcezza, egli soggiace a tutti i peccati di gola possibili e si concede a ogni momento merende a base di dolci, dolcetti e nutella. La nutella, alimento tipicamente infantile, Michele la usa dappertutto: la spalma perfino sulla frittata, a cena.
In un riuscitissimo incubo-sogno lo vediamo affrontare di notte un gigantesco vasetto di nutella (ecco un modo originale per passare dalla realtà al sogno, affidato interamente al materiale profilmico, anzi a un solo oggetto: il procedimento è semplice, pulito ed efficace, come è nei momenti migliori il cinema di Nanni Moretti). Con queste solitarie merende Michele torna a galleggiare nell'infanzia, dove perdura il suo stato di grazia, perfezione individuale e incomunicabile. Ma in Bianca l'asocialità del protagonista è più matura di quella degli altri personaggi creati in passato da Moretti: è accompagnata da un sentimento di umana solidarietà e di partecipazione, impotente ma commossa. Si pensi a come si evolve il rapporto tra Michele ed il commissario: il giovane professore decide di venirgli incontro e confessa i suoi delìtti solo per “aiutarlo”: la scena è scandita con bella ironia da un pacchetto di profiteroles che vanno e vengono. In un mondo nel quale la maturità non ce l'ha più nessuno (tranne pochi angeli come Bianca, ma sono sogni che nemmeno la nutella può comprare), Michele regredisce verso l'infanzia. Eppure entra in conflitto e in competizione con i suoi alunni adolescenti. Perché? Il motivo è semplice: questi adolescenti fanno giochi adulti: sono duri e violenti, si amano, si sposano. Michele vive, nella sua regressione, il dramma della serietà dei bambini dinanzi alle prime compromissioni della giovinezza.