«È il momento giusto per invadere le isole. Adesso, a Downing Street, c’è una donna: figurarsi se si sognerà mai di reagire», pare abbia detto l’incauto generale Galtieri, capo della giunta militare che all’epoca guidava l’Argentina, ignorando, o sottovalutando il fatto che a Downing Street c’era Margaret Thatcher. Esattamente quarant’anni fa aveva luogo la prima fase del conflitto Falkland/Malvinas.
Sullo sfondo di tale conflitto, Ian McEwan ha scritto uno dei suoi più recenti romanzi, il formidabile e distopico Macchine come me. Sfondo da lui stesso utilizzato già, in chiave realistica, nel 1986 come soggetto originale e sceneggiatura per il film L’ambizione di James Penfield (The Ploughman’s Lunch) di Richard Eyre, storia di uno scalcagnato Bel Ami dei nostri tempi che si illude di fare carriera approfittando del “nuovo corso” thatcheriano. «Cineforum» recensì il film sul n. 252, marzo 1987, in una scheda a cura di Tullio Masoni arricchita da una breve, ma incisiva intervista allo stesso McEwan.
Nell'ultima scena James Penfield assiste alla sepoltura della madre ma la sua mente è altrove. Isolandosi dalla dimessa comunità che si raccoglie intorno alla bara, James solleva appena il bordo della manica per controllare l'ora. Su questo movimento furtivo lo inchioda la macchina da presa. Un finale semplice, perfino schematico se si vuole, ma che giova ricordare per quella che ci sembra una precisa intenzionalità.
È una scena che ci riporta indietro, ad atmosfere familiari nel giovane cinema inglese di vent'anni fa. Anche nel Free Cinema, come nel Richard Eyre di oggi, pulsava il rispetto per un proletariato sconfitto e, in un certo senso, romantico. Gente spesso riconoscibile in anziani integri a cui si contrapponeva una generazione di arrivisti o di nevrotici. C'era insomma in quell'esperienza un convinto e sacrosanto moralismo: pensiamo all'atteggiamento del giovane ribelle verso il padre lasciato morire in solitudine (Gioventù amore e rabbia di Richardson) o all'anziana madre di Morgan nel film di Reisz.
Eyre sembra ereditare tutto questo; nel suo cinema si incontrano sovente vecchi “giusti”, cioè personaggi che incarnano la necessità di un recupero e di una memoria. L'ambiente nativo di James Penfield, pur nella sua irreversibile aria di sconfitta, è certo assai vicino all'altro, quello degli antinucleari, che il giovane “degenere” incontra durante la sua affannosa rincorsa, oltre che a Ben, Amos (E venne il giorno delle oche) e ancora agli anziani irriducibili di Past Caring.
In L'ambizione di James Penfiled (titolo originale The Ploughman's Lunch, letteralmente “il pranzo del contadino”, ma anche “lo spuntino alla campagnola”, ovvero un piatto di pane, formaggio e sottaceti solitamente servito nei pub) spunta poi un'altra figura, certo più ambigua delle precedenti anche perché socialmente meno fidata, e cioè la matura Ann Barrington, alla quale tuttavia il regista attribuisce una battuta chiarissima: «… la lotta contro il tiranno è lotta della memoria contro l'oblio…». Si tratta di una citazione da Kundera e concentra assai bene il legame di Eyre col passato progressista del cinema inglese.
Il protagonista principale resta comunque James Penfield, intellettuale miserabile e cicisbeo, trattato dal regista (e dallo sceneggiatore) con la cattiveria e l'intransigenza riservata di solito a chi tradisce. James ricorda un po' Bel Ami, ha la stessa pienezza di personaggio che aveva il Duroy maupassantiano, la stessa infida volontà di emergere. Ma Duroy, seminando morti e feriti, arrivava in vetta, addirittura chiudeva la propria fatica in una sorta di Consacrazione. Penfield invece non può che restare sempre un gradino al di sotto da dove s'era prefisso di arrivare. Anche lui semina morti e feriti ma la mediocrità lo perseguita come una tara spossante: è un intellettuale mediocre, superato da altri come lui che tuttavia possono far valere un superiore privilegio. Per questo Penfield, dopo essere apparso cinico, baro e detestabile, subisce una sorte patetica, una condanna ancor più severa.
Alla costruzione di questo ottimo personaggio (ma anche degli altri, tutti ben inseriti nel ruolo ed efficaci), ha contribuito in maniera determinante lo scrittore Ian McEwan. Anche lui, per quel poco che conosciamo della sua narrativa, non dev'essere lontanissimo dai colleghi che hanno formato l'humus culturale del Free Cinema: se non è un “arrabbiato”, è senza dubbio rabbiosissimo e spietato. La sua prosa acre, provocatoria e beffarda richiama ascendenze illustri pur in una assoluta contemporaneità di tensione: certo Sillitoe, forse, o magari Pinter.
Tra i film che conosciamo di Richard Eyre, The Ploughman's Lunch ci pare il più denso e compiuto. Merito anche, come abbiamo già detto, della sceneggiatura. Quello che ci interessa osservare ora è proprio l'osmosi fra le due parti, del regista e dello sceneggiatore, nell'economia di un risultato finale che da un lato si presenta omogeneo, dall'altro consente di distinguere.
Lo scavo dei personaggi attuato da McEwan ha la profondità del lavoro letterario e l'agilità psicologica del testo di sceneggiatura vero e proprio. Dal canto suo Eyre sa staccarsi sia dalle insidie del film “troppo ben scritto”, sia dalla tentazione drammatica chiusa (Eyre viene dal teatro e di ciò ha portato qualcosa nell'intensa esperienza televisiva). Dove il lavoro di sceneggiatura resta volontariamente sospeso, subentra la regia; dove la regia si dispone a regolare il gioco dei personaggi, interviene il sourplace degli attori.
Tutto si definisce, dal punto di vista linguistico-narrativo, attraverso la professione di Penfield e lo spaccato sociale entro cui questa si colloca. Con una formula, potremmo definirlo un mondo di cinica superficialità dove il passare da un luogo all'altro (una mostra, un cinema, un cocktail, un congresso) avviene con ansia e rapacità. Seguendo le vicissitudini del suo Tartufo, Eyre muove la macchina da presa in modo sottilmente sincopato: l'indifferente scorrimento sui luoghi varia di ritmo secondo le pure sollecitazioni ansiose e ansiogene del protagonista. Penfield è un redattore della Bbc e vorrebbe conquistarsi il prestigio dello storico; nello stesso tempo ambisce al blasone sociale di Susan. Disposto com'è ad ogni compromesso, utilizza la superficialità programmatica del suo mestiere per cambiare continuamente di ruolo: si finge conservatore con il reazionario che dovrebbe finanziargli il libro e progressista con Ann. Si tratta però, come abbiamo già accennato, di una rincorsa perdente perché le regole del gioco, quelle più elementari, gli si ritorcono contro.
Insomma, James non parte alla pari con i suoi compagni di scalata; non è alla pari con Susan né con l'ambiguo Jeremy, e neppure, nonostante il successo seduttorio, con Ann. Il suo destino è perciò quello di restare giocato in un concorso di circostanze soggettive (la determinazione di Susan e Jeremy) e oggettive (lo svantaggio sociale di partenza). Una sconfitta che matura dentro la dinamica incessante, la rincorsa, che la sua stessa professione gli impone e che il regista esprime scegliendo un ritmo di ripresa e di montaggio lucidamente ossessivo.
Anche la denuncia politica degli autori è filtrata da queste regole drammaturgiche. Volendo rendere l'indifferenza e il cinismo della politica per come vissuta dai protagonisti e cioè la piena speculiarità di pubblico e privato, gli autori hanno scelto la forma indiretta dello scambio tra fiction e documento. Gli attori entrano in situazioni “reali” (pensiamo alla chiusa, nientemeno che al Congresso conservatore post Falkland con la presenza della signora Thatcher in carne ossa), ne assorbono gli umori e la lingua per fare da filtro a loro volta. In questo modo la vacuità della politica (cioè il lato comportamentale del cinismo) passa indifferentemente dal primo piano al rumore di fondo, dal personaggio inventato ed emblematico a quello pubblico del documento: vale a dire che la politica stessa non fa che passare da una facciata all'altra, da quella mediologica “dal vero”, a quella drammaturgica, mantenendosi nella medesima sostanziale regola di finzione.
Non è allora eccessivo individuare in questo film una intenzione metaforica verso la mediologia e la televisione. Gli ultra ottimisti per le progressive sorti della tv non fanno che ripetere il principio (in sé importante e nobile) secondo il quale la televisione ridimensiona le gerarchie, porta nell'immaginario collettivo il quotidiano e lo promuove; The Ploughman's Lunch vuole perlomeno segnalare la presenza dell'altra faccia della medaglia. McEwan e Eyre (che di tv deve saperne qualcosa, basti guardare il suo curriculum) segnalano i guasti di una generazione assuefatta alla spettacolarizzazione del reale e, per questa via, avviata alle noie di un'invincibile mediocrità. Il loro Penfield, perdente senza epica e senza fascino, ma tuttavia a galla, è la media personificazione di una medietà sempre più larga, sempre più priva di radici e memoria.
Ricorrendo addirittura al paragone di Ulrich, L'uomo senza qualità di Musil, Callisto Cosulich ha dato questa efficace lettura: «... l'“uomo senza qualità” è diventato l'“uomo senza desiderio”: tanti “uomini senza desiderio”, cui non importà più nulla di nulla, né di godere (perché quando gli capita si sentono soprattutto imbarazzati), né di provare soddisfazioni spirituali (perché le considerano a priori fasulle, frutto di chissà quali e quante manipolazioni, come quello “spuntino del contadino” che offre al film il titolo originale e che vorrebbe richiamarsi a una tradizione profonda, mentre è soltanto una invenzione pubblicitaria per imporre un nuovo piatto nei pub londinesi. […] A suo modo un fìlm sobriamente disperato: realizzato con quel self-control di cui i personaggi sembrano non aver più bisogno» (Callisto Cosulich, «Vietato fumare» n. 4, aprile 1985).
Il libro di James Penfield è una manipolazione della Crisi di Suez, una data importante sia per coloro che si sono calati nel disagio sia per chi ha vissuto la sconfitta aspettando il momento della rivincita. Con la rabbia dei primi, Eyre e McEwan guardano, col trionfo della Thatcher, la bolsa e pericolosa egemonia dei secondi nell'Inghilterra di oggi.
– Hai sempre lavorato a stretto contatto con i registi e in questo film continui a farlo con Richard Eyre. Se non fosse stato così, avresti ugualmente accettato il lavoro?
– No, assolutamente no. Sarebbe stata un'esperienza frustrante, dato il modo in cui scrivo io, creando da solo e vivendo con i miei personaggi. Vedere il mio lavoro riscritto per essere adeguato alle ambizioni estetiche del regista, mi spezzerebbe il cuore.
– Il titolo ti fu presentato così come appare nel film?
– Non ricordo, non so come ho avuto questa idea. Credo di averla sentita alla radio dodici anni fa. Devo seguire la mia strada per arrivare al soggetto, proprio come Richard deve girare il film a suo modo, trovando le immagini che gli sembrano migliori. Nello stesso tempo, ci sono zone di creatività incrociata.
– Pensi che sia lo sviluppo naturale del lavoro di un soggettista dirigere anche il proprio lavoro?
– Una volta lo pensavo. Ma ora, guardando Richard, non penso di poter dirigere e scrivere. Il tempo e l'energia che bisogna impiegare per fare il regista sono colossali.
– Sei sufficientemente estroverso per dirigere?
– Penso che chiunque possa dirigere un film. Ma ora come ora non vorrei arrivare al livello di ansia e allo sforzo fisico che questo lavoro comporta. Di tanto in tanto scriverò ancora soggetti e, ammesso che Richard sia sempre disponibile a dirigerli, non vedo la necessità di farlo io.
– Cosa ti ha fatto scegliere The Ploughman's Lunch come primo soggetto?
– Sentivo che la cultura cinematografica di questo paese non mostra come siamo realmente, a differenza di quella americana che da sempre ha descritto l'America, anche se in termini mitologici. Siamo poco curiosi nei nostri confronti mentre gli americani sono abituati a osservarsi con una sorta di meraviglia. Volevo un film situato in un presente politico e non solo temporale. Volevo che una consapevolezza politica dominasse il film e mostrasse la Gran Bretagna di oggi… una nazione dove è più accentuato il problema della sopravvivenza che la compassione, dove è presente quella polarità tipicamente americana tra il benessere privato e il pubblico squallore.
– Quindi il film ha per te un messaggio preciso?
– Non tanto un messaggio quanto un'atmosfera. Volevo una sorta di durezza che rispecchiasse la rigidità del pensiero politico e del governo attuali. La mia idea è sempre stata quella di fare un film che esprimesse un sentimento politico, non tanto mostrando i perdenti, quanto i “sopravvissuti”, quelli che se la cavano bene, la classe media che detta opinione.