Un film come Baby Driver - Il genio della fuga sembra mettere in crisi prima di tutto chi ancora dal cinema si aspetta una morale. Non basta rilevare l’elogio dell’infantilismo irresponsabile in un mondo cinico e violento: che cosa significa veramente Baby Driver? Qual è il suo senso? Cosa ci dice?
C’è in atto ormai da tempo un rimescolamento decisivo delle figure e dei segni dell’immagine. Non serve scomodare le teorie di Justin Wyatt per capire che il cinema high concept adesso è diventato il cinema dell’intra-iconicità quale petitio principii. La cosiddetta “fine dello spazio fuori-schermo” di cui parlava Scott Bukatman è oggi una realtà ben più radicata di quanto perfino un catastrofista come Timothy Corrigan, che nell’immaginario filmico post-classico vedeva la fine della verità del cinema, non avrebbe mai osato fantasticare.
L’attuale presenza dell’immagine e del suo contenuto è talmente piena ed enfatica, e in sé autosufficiente, da rendere inutile qualunque intervento sentimentale. L’immagine non racchiude più dei simboli, non rimanda a niente: si sacralizza nel suo farsi adoperando un rapporto di somiglianza con sé stessa (con il suo passato, la memoria, il ricordo). Sembra addirittura che questo cinema non abbia paradossalmente più bisogno neppure della post-produzione: l’immagine nasce da subito ed è subito perfetta, proiettabile, visionabile. Un cinema robotico e post-tutto.
Roland Barthes si stupiva che «contrariamente alla letteratura del “non succede niente” […] il cinema, anche quello che non si presenta come cinema di massa, sia un discorso da cui la storia, l’aneddoto, l’argomento […] non è mai assente». Eppure il cinema alla Baby Driver è già post-aneddotico: in esso l’enfasi dell’aneddoto, più che peculiare, è eccettuativa; non ammette né replica, né partecipazione. Si tratta di film che si fanno da soli. In isolamento. «Al cinema “succede qualcosa”», diceva sempre Barthes: però in questo cinema succede tutto, e non si capisce cosa possa succedere d’altro.
Quello di Edgar Wright non è il solo film contemporaneo appartenente a un cinema video-assist. Sono numerose le opere odierne che fondano il loro principio sull’annullamento dello sguardo per una facile costruzione desensibilizzata. Pensate a tutti i cinecomix. Questa immersione totale nell’anemia automatizzata non è però esclusiva del mercato statunitense del blockbuster: un altro esempio potrebbe essere la commedia italiana di cassetta. In questa immagine-macchina, dunque, prende corpo qualcosa di subdolo. E se fosse una dittatura dei sensi? Se questo cinema così meccanizzato, al cui cospetto si è convocati per perdersi in una trasparenza colma, implicasse un’ideologia tirannica dell’immagine?
Oltre quella “concretezza dell’astratto” di cui parlava Franco La Polla quando il cinema gli pareva ormai un’ombra dell’immagine televisiva e soprattutto pubblicitaria: il cinema alla Baby Driver o I guardiani della galassia è un cinema del sintagma come forma assoluta, capace di piegare la narrazione e la fruizione dello spettatore in uno svenimento della coscienza. Non è tanto strano, tutto sommato, se consideriamo che l’intima consapevolezza iperbolica dell’autore è oggi in molti casi soltanto un dato registrato che si può chiamare in causa e produrre con un semplice invio. Il risultato è un’immagine sincronica, dove ogni cosa ha già trovato il suo posto. Lo spettatore, dal canto suo, non può che aderire sopraffatto, in una coincidenza inerte – o, al contrario, ipereccitata, ma l’esito è lo stesso – fra il guardare l’immagine e l’essere guardato dall’immagine. Lo spettatore, insomma, cede di fronte a un cinema spietato. L’immagine è al di là di qualunque morale, allora: è messa in campo da un cervello elettronico che frulla echi e prospettive, e trova compimento dentro sé stessa.
Con tutto ciò non voglio dare l’impressione di un’antistoricità bigotta e barbosa. Perché fra un Fofi che lancia contro Dunkirk i suoi soliti anatemi schiumosi e chi ancora dà la caccia alla poesia fra le scene di un cinema a tema, una via di mezzo deve pur esserci. E non intendo nemmeno inseguire romanticamente un sentimento dove è sciocco cercarlo. Ma davanti a un’emozionalità che sembra essere l’effetto istintivo di un’azione comandata, l’ebbrezza di un’immagine ubriaca di sé e da sé, la mia euforia di spettatore assume colori spiacevoli. Troppo chiari. Troppo luminosi. Inutile anche ricorrere all’ologramma computerizzato del Nuovo Storicismo di Hayden White e Dominick LaCapra: benché mutata e complessa, stropicciata e rigonfia, difficile che oggi la realtà dell’immagine equivalga alla realtà delle cose; e non c’è cinema del reale che tenga.
L’immagine contemporanea alla Baby Driver è un’entità prevalentemente tecnologica che si giudica in base al proprio statuto di autoconservazione, perché è in grado di preservarsi dalla caducità di una passione. D’altronde, uno degli scenari più inquietanti del cinema di trenta-quarant’anni fa era quello tecno-catastrofico in cui le macchine parevano sviluppare una vita propria o addirittura sintomi umani: come la mettiamo ora che il cinema è costretto a riappropriarsi delle sue immagini per liberarle dalla macchina? Ora che l’immagine iper-controllata, satura e tumida, che prevede la visione e la reazione dandole già per certe e assicurate, ha soppiantato l’egemonia dell’autore più autoritario?