Ma io che scrivo di cinema, oggi, posso ancora appassionarmi al cinema? Cioè, proprio appassionarmi come in una palpitazione amorosa, trepidare, non stare nella pelle, un po’ come la gioventù americana (benestante, istruita) per la quale negli anni ’70, per dirla con Susan Sontag, andare a vedere i film, pensare ai film, parlare dei film era una vera passione perché ti innamoravi non solo degli attori ma del cinema stesso?
Posso ancora innamorarmi? Eppure non riesco a evitare di pensare che il significato profondo della parola passione si sia perso per strada. Un po’ era inevitabile, quando ognuno si professa appassionato di cinema perché può esprimere liberamente e orgogliosamente la propria opinione. Quindi forse non è più un’epoca d’innamoramenti, non ci sono neanche più i luoghi per innamorarsi, gli angoli, il buio. Di certo mi pare che le battaglie a suon di giudizi, recensioni, pro e contro non facciano molto bene alla critica. Che già di suo non sta bene, né in verticale, né in orizzontale: se poi crediamo che il pluralismo delle voci le porti fortuna, garantendo al lettore un parco giochi in cui egli può scegliere il gioco a sé più congeniale, non la medichiamo mica tanto.
Ma dov’è finita la critica come educazione? Dov’è finito il mestiere del critico come traghettatore del buon senso, di un criterio, della riflessione universale, assoluta? Moltiplicando i punti di vista non si aiuta il lettore, ma si fomenta l’idea già fin troppo diffusa che il cinema sia la palestra più facile e accessibile del mondo. L’assortimento polisemico della critica genera incertezza: tanto che se qualcuno di buzzo buono vuole trovare un conforto, non sa che pesci pigliare. Come può costui decidere dove sta la verità, se di un film ne legge cinque diverse? Non è così che si rispetta la capacità di discernimento del lettore: davanti all’esposizione sensazionalistica di varie leccornie, tutte molto ghiotte, c’è il rischio che il cliente faccia un’abbuffata nauseante, o scappi disgustato. E lo si può ben capire, se non si sa decidere.
Ho sempre creduto che la critica, quella vera, quella fondata su una proporzione coerente di tempo e pratica, fosse un esercizio capace di vincolare lo sguardo, piuttosto che liberarlo alla mercé di chiunque. D’altronde è più comodo lasciarsi sedurre dalla quantità, invece che dalla qualità. Ma non c’è soluzione: se invochi l’autorevolezza, sei un ingenuo; se credi nella fiducia, lo sei altrettanto. Che critica è quella del chiacchiericcio da bar? Quella che colma le distanze fra cinema, politica, calcio, Papa?
Non c’è più nessuna differenza fra l’eccitazione per The Wolf of Wall Street e l’indignazione per l’ennesima vicenda del governo: è tutto uguale, ha tutto la medesima caratura, nella dialettica dei social network – l’ultima frontiera della critica, la slabbratura definitiva della stessa in un coro di ugole – finisce tutto per avere la medesima importanza. Quand’anche si volesse prendere la strada più impegnata dell’immaginario, senza scadere nei singoli ovvi sì e no, la critica rimarrebbe l’autoerotismo di un nerd intellettuale (e non è un ossimoro). Mettiamone insieme più d’uno, e il risultato è un rapporto di scambisti appartenenti alla casta. Inbreeding. Critica endogamica: è un’orgetta esclusiva dove i corpi e i volti si confondono e si mescolano, come in Society di Yuzna.
Ma la critica non è (soprattutto?) una questione di firma? Di identità? Perché io sono cresciuto leggendo e studiando i miei critici preferiti (due, tre, non tutti, non chiunque), che mi hanno fiancheggiato nella formazione di un pensiero (critico), mentre oggi vige l’ideologia antologica come modulo democratico? È una finta libertà che si concede: il lettore veste i panni poco piacevoli del mendicante, con la mano tesa verso chi ha una generosità tale da offrire la propria corrispondenza. Ma chi lo dice che la mano sarà riempita? Il pericolo è che questo povero lettore, così bisognoso e così aperto, si ritrovi con un pugno di mosche, e rincasi mesto dopo una giornata spesa a osservare passanti ben truccati ma poco disponibili a fermarsi.
Come posso dunque appassionarmi e addirittura innamorami del cinema, oggi, se la critica segue le logiche e le dinamiche del mercato, dove per giunta si va per comprare a prezzo più basso? Non mi piace la critica come vendita al dettaglio: vorrei tornare alla critica cattedratica (apriti cielo!), quella che si insegna sui banchi di scuola, rappresentata da qualcuno che s’è fatto le ossa sul campo, e non cibandosi delle ossa piccine di bipedi da batteria che crepano dopo aver strillato con 140 caratteri.
Vorrei recuperare dall’oblio la figura del critico come voce solista a cui affidare il mio batticuore: sarà pure un’attitudine da ragazzina in calore, ma se anche Scorsese si entusiasma per gli One Direction, non posso che sentirmi in buona compagnia.