Fateci caso: in Bumblebee gli unici a togliersi le t-shirt e a restare coi capezzoli al vento sono due maschietti, in scene assolutamente gratuite. Quindi, a chi è rivolto il film? Ai nostalgici eighties, ormai una razza? Ai fan prevalentemente di sesso maschile dei Transformers (con inconsueto e francamente inattendibile spregio di genere e di target)? O alle ragazzine che si identificano nella protagonista e sognano con lei l’amico vero – e “diverso” – e, non si sa mai, anche un fidanzatino (castissimo, per carità, benché il six pack sia allettante)? La risposta non è semplice. E non basta Howard Jones, la locandina di La cosa, il braccio alzato col pugno chiuso di Breakfast Club e un sentimentalismo lineare a fare anni Ottanta. Bumblebee è interessante esclusivamente quale tentativo di far aderire la pachidermica estetica contemporanea con un’ideologia – sì certo, anche estetica - di quarant’anni fa, e osservarne da vicino il risultato fallimentare. Ma non credo fossero le intenzioni dei realizzatori.
Tuttavia è qui, in questo scontro di titani tra un sistema industriale odierno e una moda, quindi tra una regola e un’aria del tempo, che trova compimento una sparizione. Il cinema svanisce, esiste soltanto un effetto produttivo. Che è quello di un impianto home theatre all’ennesima potenza: un cinema paradossalmente centellinato, scrupolosamente calibrato e infine diffuso. In epoca di penosa contesa distributiva su dove guardare cosa, assistere ad Aquaman in MX4D (l’ho provato) è forse l’unica soluzione possibile: muoversi con lui, ricevere vapori e spruzzate d’acqua con lui, sprofondare negli abissi assieme a lui. E la regia che fine fa? James Wan “gira” come in una puntata di Fast & Furious (e la parentesi siciliana sui tetti è una citazione pressoché letterale della saga), non c’è più differenza fra matrici, è il cinema che insegue e digerisce se stesso per autofagia.
Siamo messi bene: rifiutarlo significa fare come gli struzzi, e non voler vedere; entusiasmarsi vuol dire accettare la morte dell’invenzione e il dominio dello spettacolo quale centrifuga neo-moderna, una realtà già ampiamente avviata e a suo modo vecchia. E allora, come facciamo? Torniamo all’antico? O acconsentiamo al fatto che questo cinema detti i criteri della nostra visione e del nostro gusto? C’è una scorciatoia, forse non risolutiva però mi pare efficace, cioè considerare questo non-cinema come il nuovo trucco e parrucco del cinema. Roba da far invidia al mimetismo di Christian Bale in Vice – L’uomo nell’ombra. Un cinema neanche più di “semplici” dimensioni, come qualche anno fa per i cinecomix: un cinema direi di protocollo elettronico. Un cinema propagato per poltrone D Box. Un tempo potevamo chiamarlo video assist: ora è un protocollo fantasma. La cosa più preoccupante e tragica è che si tratta di un rito interculturale, di pertinenza tanto della Hollywood più corretta in CGI, quanto del caro e vecchio indie apparentemente più libero e selvaggio. Un film come Old Man & a Gun obbedisce al medesimo cerimoniale divulgativo, solo che lo fa con la memoria archiviale e una lusinga cinefila più morbosa (e subdola). I sensi dello spettatore sono toccati non nello stesso modo ma sicuramente con un proposito condiviso, diciamo – benché suoni apocalittico - di sterminazione intellettuale.
Cosa resta, dunque, se rimuoviamo il trucco e scartiamo tutte le parrucche? Il re nudo, davanti al quale, se non vogliamo rimanere fuori dal mondo, non possiamo che inchinarci. Ma se la critica volesse non “tornare a casa” – per carità, sarebbe passatista e reazionaria – ma trovarla di nuovo, una casa? Se volesse provare ancora una sensazione di appartenenza superata a destra e sconfitta da anni e anni (contiamoli: non sono pochi) di ininterrotta distruzione di massa e relativa trasformazione delle immagini? Nessun giudizio morale, solo il bisogno di una pace dimenticata e oggi, se non impraticabile, sicuramente difficile. Può farlo? Ci sono i presupposti? Secondo me sì. Dovrebbe fare un po’ come Mark Hogancamp, che in Benvenuti a Marwen mette a tappeto il sé più imbarazzato e “mostruoso” a suon di tacchi alti, e un po’ come il dottor Don Shirley, che in Green Book ascolta la voce del sentimento, rifiuta l’isolamento e suona al campanello di una domesticità tradizionale (sì, d’accordo, anche famigliare) eppure – finalmente - serena. Dovrebbe insomma abdicare al proprio statuto di vassalla. La critica, intendo. E rinunciare sia al conformismo dei dati, sia – appunto – al protocollo. In questo modo ritroverebbe una chiarezza perduta e, allo stesso tempo, saprebbe vedere meglio. E fare inoltre i conti con questo cinema così nuovo e così inaccettabile, ma del quale evidentemente non si può fare a meno.