Una nota giornalista italiana di un noto quotidiano italiano sostiene che La vita di Adele è “un film bellissimo, profondo, onesto, mai offensivo”. Le vorrei chiedere perché avrebbe dovuto essere offensivo, e se a suo giudizio la vicenda di una passione lesbica sarebbe già di per sé campo minato e quindi a rischio d’offesa per qualcuno. Facendo le dovute proporzioni, immagino che un giornalismo del genere, oggi, ci resterebbe secco di fronte a Cruising, un dramma altamente offensivo, per giunta.
Il punto però è un altro. Mi accorgo con un certo sconcerto che per parlar male del film di Kechiche si usano termini e concetti quali voyeurismo e nientemeno che odontoiatria; e c’è pure qualcuno che si lamenta per l’assenza di vero erotismo. Forse il regista è un dentista perché osserva a lungo la bocca della protagonista mentre mangia gli spaghetti al sugo. Forse Kechiche è un voyeur per lo stesso motivo, e perché fra l’altro sembra voler entrare dentro i capelli di Adele. Che sporcaccione! Roba da far sembrare Tinto Brass un regista del neorealismo. Insomma, La vita di Adele come l’equivalente di un tardo Samperi con Florence Guérin.
Non mi interessa qui difendere il film (che peraltro si difende benissimo da solo). Mi interessano invece le parole. E mi chiedo se i dettagli insistenti della vita e del cuore possono essere voyeuristici. Difficile oggi accusare di voyeurismo il cinema che guarda la malattia e la morte, dopo l’abbondante acqua passata sotto i ponti. Quindi forse a rimanere tabù sono ancora i sentimenti, le sensibilità, le sensazioni.
Evidentemente rappresentare un’esistenza, nel tentativo di rintracciarne le radici e i vasi sanguigni, e al di là della consuetudine a cui siamo abituati, deve restare una questione privata, perché i panni - più o meno sporchi – è opportuno lavarli in casa. Tarnation di Jonathan Caouette, per esempio, dovrebbe dunque essere il massimo della pornografia.
Ma come si fa a raccontare la vita con la vita stessa? La ricerca della verità non deve passare dal realismo, ma dalla sua ipotesi. La verosimiglianza è una pratica a doppio taglio: piuttosto parlerei di iperrealismo. L’aveva capito bene Maurice Pialat. Nessuno scambierebbe il suo capolavoro La gueule ouvert per un film voyeuristico: eppure sta così addosso al dolore che lo spettatore non può non sentirlo. Difficile apprezzare La vita di Adele prescindendo dal cinema dell’autore di Passe ton bac d’abord…: difatti quello di Kechiche è l’unico film veramente pialatiano dalla scomparsa di Pialat, un film tutt’altro che realista, un film al contrario impetuosamente iperrealista che la vita la cerca e la crea, non la ricopia.
Dove sono i buchi della serratura da cui spiare, in La vita di Adele? Non ne vedo. A meno di non giudicare la scena di sesso di una decina di minuti una cosa da guardoni. Ma inseguire l’erotismo o l’eccitazione in una parentesi di letto come questa – sebbene ben più lunga di quanto permetta solitamente il cinema cosiddetto tradizionale – significa fare un torto non tanto al film o a Kechiche, quanto all’idea di realtà che questo cinema (non è il solo: si ritorni ancora una volta a Lo sconosciuto del lago) si fa in quattro – anche con la durata - per offrire: una realtà iperstimolata al fine di trovarne la libertà, un sogno di realtà, l’immaginazione del reale.
Non è una scoperta piacevole, né per i detrattori del film, che ne lamentano la mancanza d’erotismo o che puntano l’indice contro uno sguardo apparentemente improntato alla scopofilia del quotidiano e in particolar modo del privato, né per chi ne elogia l’aderenza commovente alla vita.
Provate a individuare qualche tipo di realtà fra gli strappi e le brusche sottrazioni di L’amante giovane: Pialat accusò il suo direttore della fotografia Luciano Tovoli addirittura di estetismo, ma peccava per eccesso, perché in quella vicenda d’amore, fra continui litigi, allontanamenti e rappacificazioni, in quel violento presupposto di realtà, così distante dal reale eppure così vicino che è impossibile non odorarne le lacrime e la rabbia, in quei dialoghi estenuanti in auto, senza sfoghi e in mancanza d’aria, ecco, là dentro c’era qualcosa che, attraverso malformazioni e piegature e abrasioni mostruose, faceva pensare alla verità.
Qualcosa di cui Kechiche dev’essersi reso conto, perché inquadrare in primo piano una bocca che mastica avidamente gli spaghetti al sugo, mentre guance e mento ne restano sporcati, non vuol dire automaticamente fotografare la realtà: mi sembra invece un’azione di fotorealismo, e anche per questo politica.