Proviamo ad azzerare il vincolo che la nuova versione di A Star Is Born intrattiene con le precedenti. Cosa resta? Vediamo.
Una star femminile di indiscutibile talento vocale ma di discutibile bellezza è born grazie all’aiuto di un’altra star, maschile, già navigata, già sulla cresta dell’onda, già celebre. Lei viene dal basso, lui anche. Ma lei ha il nasone e un profilo non eccellente, quindi è rimasta al palo di un lavoro che non la valorizza, di qualche cantatina in un locale per drag queen e di un padre un po’ invadente, non troppo, si tratta di venerazione paterna. Però il suo migliore amico è gay, e anche lui la venera. Segno dei tempi. Per sfondare le serve però un macho vero. Uno che beve come una spugna da secoli e tira come un aspirapolvere ma che ha un fisico bestiale, six pack e pelo folto, barba bella e oliata, capello lunghetto e lucido (e vagamento unto). Un maschio come dio comanda. Un uomo che non deve chiedere mai, neppure al fratello maggiore, trattenutosi ai margini per lui. Jack è un jock che più gator non si può; e lei, Ally, povera, come può resistergli? Ha appena scaricato via telefono un uomo stramaledicendo il genere maschile che subito cede a un altro, prima alle lusinghe, poi al bacio (è Jack a fare la prima mossa). Un cavaliere, la sua donna: è così infatti che la chiama, my girl, non riesce a dire di meglio, è un cowboy. Poi lei assurge alle stelle, mentre lui giù, nel baratro, specialmente perché lei, affronto sommo, si dà al pop più sgallettato con tanto di ballerine, e per uno così è una vergogna. Parentesi: la strada di Ally verso la fama e il Grammy è spianata e garantita da un giovane bellimbusto che sa il fatto suo, che non porta le calze ma i fantasmini e che, dettaglio non di poco conto, non è americano bensì inglese (lo si coglie perfettamente dall’accento nella versione originale). Doppio, triplo insulto: Jack non potrebbe mai indossare i fantasmini; e che uno straniero gli soffi da sotto il naso la sua girl per accompagnarla alla celebrità, ecco, no, è troppo, lui che è un vero duro, lui che la virilità ce l’ha addosso, dentro e sopra, come una pelliccia. Maschiezza, si badi, che il rehab e qualche lacrima non incrinano, d’altronde è fatto di carne ed ossa anche lui; e il suicidio non è né una resa né una sconfitta, è al contrario la celebrazione suprema di una forma, il suo fermo immagine nel tempo, nei secoli dei secoli, un gesto che fissa un pensiero e le sue implicazioni e che ha la stessa forza mitopoietica del freeze frame conclusivo di Thelma & Louise. In questo modo Jack, il suo attore e il suo regista consolidano un simbolo sia di uomo, sia d’America. Ally, a tal proposito, piange e canta, perché lo ama inesorabilmente, però nel frattempo pare aver messo da parte le mostruosità del pop più leggero per intonare un’elegia funebre in un teatro gremito, all’opera, traguardo estremo.
Cosa resta, dunque? A Star Is Born glorifica l’itinerario dei riflettori da X-Factor sullo sfondo retrivo di un modello dei sessi e di Paese affondato nella tradizione di un pensiero probabilmente non più dominante ma da museo delle cere. L’ideologia del cowboy bello bellissimo e dannato dannatissimo è ancora irresistibile, e Bradley Cooper (volto e corpo nato sulle ceneri del Frat Pack e cresciuto come satellite del Team Apatow, modello di un celibato redneck e leggermente sessista) crede con grande determinatezza nella rappresentazione di un mondo dove i ruoli sono tutt’altro che fluidi. La sua è un’icona di leggenda vivente, che l’alcol e la droga rendono umana (vorrei dire trumpiana) e per cui adulare, corteggiare, accompagnare alla ribalta e infine lasciare al proprio destino una donna è sinonimo di amore. La sua stella è pronta per il firmamento, in confezione ipermascolina. Almeno Prince in Purple Rain era più “scivoloso” (e meravigliosamente ambiguo) nella sua apologia misogina. Ally, che prima dell’esibizione di I’ll Never Love Again (orripilante, lasciatemelo dire) si presenta al pubblico specificando anche il cognome, ma quello del marito, vede manifestarsi davanti a sé un sogno accarezzato a lungo, che la travolge soltanto perché Jack è travolto a sua volta da se stesso: tutto il resto non sarà noia ma poco ci manca. Ally è la donna di Jack, la donna del bandito, una donna e una canaglia, una donna semplice, la donna nel mondo, benché il mondo appartenga a un uomo con chitarra e stetson, motocicletta e «grazie per esserti preso cura della my girl», un rocker che porta i segni della vita, ma li porta così dentro, in fondo all’anima, che fuori è un tronco di maschio, più bello di così si muore, più calda e profonda di così la voce non potrebbe essere.
Mi chiedo se Bradley Cooper e Lady Gaga abbiano mai visto The Rose. In quel film Bette Midler non era la donna di nessuno. Era travolta dal tempo, che era chiaramente più grande di lei. Ma era una donna che spettava solo a se stessa, e cadeva perché per lei era impossibile fare le giuste proporzioni fra genio ed epoca. Tanto che la sua sregolatezza non era sufficiente a renderla un fenomeno. Finiva bruciata da sé. Era indipendente.