È Lo sconosciuto del lago il vero cinema “altro”, oggi. Quello che i media e gli uffici stampa definiscono “il film scandalo di Cannes” e provocatorio. Scandalo forse perché sono mostrati peni ed erezioni ed eiaculazioni come se piovessero, che evidentemente provocano nel pubblico uno struggimento tale da restare scosso e allibito per giorni. Provocatorio forse perché è ambientato in un battuage, terra rimossa e limite che per la prima volta è descritta nel dettaglio e sotto il sole. Oppure scandalo e provocatorio perché gay? Eppure anche i film di Lars von Trier sono scandalosi e provocatori, almeno secondo la vulgata mediatica comune.
Ho capito, dev’essere colpa della somma. Membri che svettano + maschi che battono fra i cespugli dà un risultato chiaramente eccessivo e insopportabile. Aggiungiamoci poi che di donne non ce n’è manco l’ombra, e lo scandalo provocatorio è bell’e pronto. Non vorrà mica dirci, il regista Alan Guiraudie, che l’universo maschile può bastare a se stesso e può campare anche senza l’altra metà del cielo? Non vorrà mica dirci, quel birbante supponente di un filmmaker francese, che il mondo queer può ritrovare l’indipendenza, e viverla per giunta fuori da ogni calcolato e maledetto vittimismo? Oibò. Che fantasia balzana. Che concetto insulso.
Provo a vederla così. Lo sconosciuto del lago è il cinema “altro” contemporaneo perché riporta tutti – etero e gay - alla sacralità del gender puro. E questo, in una società politica dove fa ancora notizia la rincorsa alla parità dei diritti, suona come una bestemmia. Ma quale parità, se il semplice nome e la stessa identità impari sono inquinati dal caos della lotta per l’approvazione, contaminati da lustri di tentativi di omologazione? Meglio ricorrere al lago della pace, attorno al quale la solitudine ha le forme di una ripresa della Bastiglia.
“Altro” allora come fuga snob (ebbene sì, snob, e bisogna andarne fieri) non dalla realtà ma dall’idea che di realtà (e di cinema) ci siamo fatti negli ultimi anni: un’idea di barbarie perenne, un brulichio vociante di pareri e posizioni, giudizi e pregiudizi, alzate di mano e bandiere a mezz’asta. “Altro” come svestizione anche letterale, per tornare a recuperare la pelle originaria, nuda, inviolata.
Ricordate Al Pacino che si specchiava alla fine di Cruising, dopo essersi rasato, e capiva che qualcosa non era più come prima? Che la sua indagine nel sottobosco del leather e del fist-fucking lo aveva smosso e cambiato più del previsto? E che prima dell’ultima dissolvenza muoveva lo sguardo verso la macchina da presa, posandolo direttamente sullo spettatore?
Il pensiero queer generale e generico s’era infuriato, scambiando il denudamento con la malattia. Però quell’immagine riflessa rimane ancora adesso un monito a guardarsi per bene e a ripulirsi dallo sporco dell’uniformità. Lo sconosciuto del lago è un faro nello smog di tutto il cinema accettato e accettabile. Cinema che si spoglia, togliendosi perfino le mutande (quale orrore! che scandalo! che provocazione!); un cinema scoperto per una società senza veli, un po’ come l’avrebbe potuta intendere Cicciolina.