Questo boccone prende ispirazione da una discussione avvenuta qualche giorno fa in un gruppo prevalentemente di cinema di Facebook. Una discussione animata, appassionata, tutt’altro che sterile. Si sosteneva, facendo una sintesi, la necessità di un cinema “altro”, sia contro lo strapotere hollywoodiano, sia contro l’anestetizzazione del gusto.
Ma qual è oggi il cinema “altro”? C’è ancora un cinema “altro”? Fino a vent’anni fa andavamo ai festival per vedercelo, questo cinema “altro”, e poteva essere sia un film di Ishii Sogo, sia Sonatine, sia l’ultimo documentario sul vero e dal vero (documentario?) di James Benning, sia un raro film del Burkina Faso. Ma oggi? Oggi i media osannano la presenza di un paio di doc nel concorso veneziano, e sembra la cosa più nuova e originale del mondo. Lo si diceva anche quando Cannes mise per primo un cartoon in competizione per la Palma d’Oro: dopo non è praticamente passato anno senza un’animazione nelle line-up dei principali festival internazionali. Ecco a cosa siamo ridotti: a stupirci ancora per un documentario che gareggia alla pari con un lungometraggio di finzione. Oggi! Ancora! E sarebbe questo il cinema “altro”? Quello che ondula fra finzione e “presa diretta”, invenzione e resoconto? O l’accostamento accanto a un film dei fratelli Coen rende automaticamente Shrek 2 cinema “altro”?
Colpa di quei media, si dirà. Invece no, non è (solo) colpa loro. Una volta tanto. La colpa, se di colpa si può parlare, è di chi ancora insegue la chimera di un cinema “altro”, che in effetti non esiste più. Né può esistere più. Chi continua oggi a difendere a spada tratta gli Straub-Huillet o le Chantal Akerman del caso, parlando di diversità, imparità e non appartenenza, pecca - suo malgrado? - di anacronismo, perché non soltanto la realtà è andata avanti: è andato avanti il cinema, ma soprattutto è andato avanti il modo di proporre quel cinema agli spettatori e ai cinefili.
Il cinema “altro” che così prepotentemente si inseguiva qualche anno fa, sperando di fuggire allo tsunami costante e spaventoso dell’immaginario cinecentrico hollywoodiano, è già stato mangiato e digerito da un sistema festivaliero che l’ha fatto suo, rendendolo “altro” (qui sì) da sé. Quel cinema, che era “altro” e che non lo è più, adesso è il cocco dei festival, è il cosiddetto “cinema da festival” che nessuna manifestazione che si rispetti può permettersi di lasciarsi scappare.
Tutti i Lisandro Alonso, i Reygadas, i Gomes, i João Pedro Rodrigues, i Jaime Rosales, gli Alex van Warmerdam, fino all’altro ieri portatori principe di un’alterità che il pubblico considerava giustamente novità, ora appartengono inevitabilmente a quell’identità festivaliera che nasce e muore nel corso dei sette/dieci giorni di calendario. Niente di male, per carità, anzi!, ma che almeno li si riconosca come tali, e non più come cinema “altro” capace di salvare noi tutti dalla standardizzazione a stelle e strisce (concetto “fenomenologico” peraltro vecchio come il cucco e - credevo - obsoleto: difficile servirsene ancora con serietà e credibilità).
Allora la colpa è un po‘ di quella cinefilia anale inadeguata al reale e senza strumenti per elaborare - in termini teorici ma anche ludici - l’offerta contemporanea. Perché se sono il primo a chiamare cinema “altro” quello di Matthias Müller o di Virgil Widrich, mi rendo pure conto che si tratta di uno sperimentalismo ormai perfettamente aderente a certi canoni già sperimentati e già canonizzati. Basta insomma non tanto saper distinguere, quanto saper dare alle cose il loro vero nome.
Poi uno può continuare ad apprezzare e celebrare Nicolas Provost, giusto per fare un esempio, ma non credo si debbano usare gli stessi termini e gli stessi strumenti adoperati per Exoticore e Plot Point: non è più cinema “altro” soltanto perché si distanzia da Into Darkness - Star Trek, e proprio per questo meritevole di plauso; casomai, è un altro cinema, che ha lo stesso diritto di appartenenza del nuovo film di Ridley Scott.
Non c’è cinema “altro”, non può più esserci. Però c’è sempre il bel cinema e il brutto cinema. Lo spettatore e il cinefilo dovrebbero capire che un video di Nagi Noda è bello quanto Lo sconosciuto del lago, che a sua volta è bello quanto The Grandmaster, che a sua volta è bello quanto... Nessuna scala valoriale, solo l’altra faccia della (stessa) medaglia. Quella bella. Perché quella brutta è un altro paio di maniche.