C’è modo e modo di guardare a una storia. Ma c’è anche modo e modo di filmarla. C’è sguardo e sguardo. Alla critica, soprattutto quella militante, la fondamentalista sine qua non, lo “sguardo morale” è sempre parso il più onesto, il più credibile, il meno artificioso, l’unico convincente e auspicabile. È chiaro comunque che lo sguardo su una storia equivalga in prevalenza al metodo scelto dall’autore per rappresentarla, per farla scena. Senza scomodare Rivette, Daney e le loro pagine avvelenate su un certo carrello, sguardo - quindi - uguale a regia (e non a sceneggiatura, evidentemente, benché…). Ci voleva uno che lo sguardo ha contribuito a rifondarlo, una quarantina d’anni fa, per recuperarlo e recuperarne oggi se non l’importanza, di certo la decisività. Uno che nel bene e nel male ha spianato la strada al cinema moderno, e che adesso capisce che non può esistere un film senza determinarne anzitutto un sentimento espressivo. Al di là di immaginari, poetiche, correnti e mode, e senza sfruttare ancora un volta i vestiti ormai stropicciati per l’eccessivo uso della classicità, della postmodernità eccetera eccetera. Uno come Spielberg, che crede di nuovo allo sguardo quale regia delle cose, degli eventi.
Non sarà il solo, ma un film come The Post sembra a tal proposito respingere ogni alternativa. Non ci sono altre strade per raccontare una storia, se si vuole che il cinema torni ad essere un fatto essenziale della vita, a creare dei precedenti, a insegnare qualche cosa di noi e di ciò che ci sta intorno (e per favore, che non si abbia paura di questa parola, insegnare: grattiamone via la retorica, il tronfio spessore didascalico, e accettiamo ancora che il cinema possa insegnare e insegnarci). Se lo sguardo dunque corrisponde alla regia, la regia non può prescindere da una disciplina sentimentale. Non delle regole, non degli imperativi, neppure dei codici di buona educazione e galateo: una regia come guida emozionale, che sia lo specchio vivido e sicuro di un affetto, di una coscienza. Ben sapendo che a una storia serve prima di tutto un giudizio di valore estetico. Serve la stima della passione, una valutazione premurosa. Di qui alla comunicazione, cioè all’insegnamento, la strada è breve e in discesa.
Provate a cercare in The Post un movimento della macchina da presa. Cercatelo per “evidenziarlo”: non ne troverete. Cercate un primo piano: non ce n’è. Cercate un piano sequenza: ce ne sono tantissimi, ma non ci farete caso, non li “vedrete”. The Post è così chiaro, distinto, riconoscibile nella propria luminosità caratteriale, che non ti accorgi del suo sguardo. Capisci perfettamente ciò che dice, ma per intuirne l’espressione, cioè il modo, devi fare uno sforzo secondario, non impossibile, tutto sommato lieve. Secondario, sì, non obbligatorio, può bastare il resto (la libertà di stampa, la deontologia professionale, il mestiere, l’uomo, la donna, il gruppo), eppure è lì, nell’assoluta non-manifestazione della regia di Spielberg, nella sua anti-rivelazione di uno stile, che nasce la vera natura del film, il suo genere.
The Post ha lo sguardo del nitore. Sembra un film al servizio della storia, di per sé sufficiente a parlare, tuttavia è anche un film che decide di non emergere, di non mettersi in vetrina. Un film che confida a tal punto nella propria sensatezza da non doverla mai dimostrare. Cinema che c’è perché rinuncia a sfilare, e che si ama non dell’amore egoriferito dei maestri della forma-selfie ma di un amore che è principalmente rispetto di sé e di chi si ha davanti (a sé, alla macchina da presa, allo schermo). Allora sì che lo sguardo è uguale alla regia, ancora, finalmente, da sempre, per sempre: perché Spielberg osa riconsiderare il sentimento del cinema al pari di una questione centrale nella nostra vita di spettatori, ritrovando nella cultura visuale della coerenza emotiva quella dimestichezza con il cinema più bello e più giusto che forse non ci eravamo nemmeno accorti di aver perduto.