Foto: Thierry Frémaux, General Delegate © FDC
Qualcuno diceva che il potere logora chi non ce l’ha. Era uno importante, che aveva potere. Ne aveva molto. Non so se ne sia mai stato logorato. Stando a lui, però, erano gli altri ad esserne corrosi: quelli cioè che non hanno potere, ma lo vedono esercitato, lo subiscono, ne osservano i piani e gli abiti, il trucco e i giochi di prestigio. Il potere, a conti fatti, è un habitat, finisce per essere un’indole, credi ti appartenga di diritto. Quanti film hanno descritto il potere e i suoi spettri? E questo perché il cinema non può esserne vittima: il potere è una forma di vigilanza, mentre il cinema è libero e democratico, lo spettatore può farne ciò che preferisce, può anche ripensarlo, può ricrearlo e ridefinirlo. Lo spettatore il cinema non lo usa, lo sceglie per sé. Non lo sfrutta: lo indossa. Il cinema è un sentimento, probabilmente romantico, forse fuori dal mondo, ma è tutto sommato un affetto, e non ha niente a che fare con l’autorità. Il cinema è, insomma, un amore, e perciò profondamente incompatibile con il potere.
Gli affetti, però, se taciuti o zittiti rischiano di morire. Specialmente in un rapporto a due, come tra cinema e spettatore. Perciò il cinema ha bisogno di essere visto. Diffuso. Favorito. Affinché lo spettatore, che del cinema è innamorato, possa ricrederci sempre. Oggi il cinema lo diffondi come vuoi, non serve fare elenchi, e i festival, che fino a vent’anni fa restavano il canale privilegiato, sembrano aver perso a questo proposito il loro ruolo centrale. Eppure basta non pensarli come una vetrina. E sapete perché? Perché le vetrine, almeno le migliori, sono studiate, ordite, decise. Sono una forma di potere: questo abbiamo scelto per te, pensiamo sia il meglio e la sola cosa valida, di certo la più rappresentativa. La vetrina non è un palco, è un indotto. È una provocazione, nel senso che è causata, eccitata, assunta, e quindi imposta. No, allora, i festival non sono una vetrina. Se devo rinnamorarmi ogni giorno, diciamo ogni novantanove minuti (benché ormai la durata standard di un film sia di più, molto di più), non posso farlo davanti all’esposizione firmata da un vetrinista (ancorché bravissimo). Un sentimento lo recupero in proprio, non per interposto sguardo.
Quindi no, i festival non dovrebbero essere esercizi di potere. Neppure in un’emergenza. Dovrebbero essere una splendida realtà in movimento e in divenire, non un’immagine definita, non una volontà già risolta. Il 10 maggio Screen Daily ha pubblicato un’intervista esclusiva al Delegato Generale di Cannes Thierry Frémaux, che praticamente ricanta come in un ottuso mantra assurde convinzioni esposte nei due mesi precedenti di auto-manovre promozionali demenziali, rimbalzate dalle bocche di tutti i cinefili e di tutta la stampa del mondo e chiaramente giunte alla cancellazione dell’edizione 2020 (originariamente in programma dal 12 al 23 maggio), non prima però di aver suonato ininterrottamente un disco rotto di no-non-annullo sì-che-annullo-ma-solo-per-spostare sì-la-selezione-prosegue-come-sempre no-non-possiamo-spostare no-dobbiamo-inventarci-qualcosa-d’altro, nella convinzione artefatta di un astratto “bene comune” quale giustificazione di una presenza esclusivamente tirannica.
Frémaux è un torrente in piena, e non lo ferma nessuno, figuriamoci un virus qualunque: Cannes per quest’anno è soppresso, il resto no, Selezione Ufficiale compresa, quella-che-sarebbe-dovuta-essere-e-non-è-stata, che in un impeto che sta tra l’irragionevolezza e il pettegolezzo da bullo da salotto (quello che il-film-io-l’ho-visto-e-voi-non-ancora) egli dice di voler annunciare comunque durante i primi giorni di giugno. Il cinema, insomma, a Cannes è una categoria di proprietà: Frémaux sostiene che si tratta di una lista di opere destinate all’uscita in sala da oggi (now) alla primavera del 2021, cioè prima del prossimo festival di Cannes. I film avranno una vidimazione: visto da Cannes, scelto da Cannes, approvato da Cannes. Gli avanzi non contano, specialmente chi per timore della pandemia ha deciso di ritirarsi e dirottarsi verso Venezia («Nessun problema, non l’avremmo selezionato in ogni modo»: che eleganza).
Ma se le immagini le condizioni e le stabilisci, invocando il bene del cinema (che è uno specchietto per le allodole, un’illusione ottica, un miraggio), non sei l’angelo salvatore, e nemmeno il paladino che lotta per la giustezza: sei, più ambiguamente e sgradevolmente, un feudatario. Almeno la lettera di Alberto Barbera diffusa da Variety il 5 maggio, con la quale il Direttore Artistico della Mostra di Venezia interpella direttamente l’industria cinematografica sui margini di una concreta possibilità di garantire la presenza delle star per i film invitati, è un antefatto con più classe e meno antipatico nell’esternazione (quantunque altrettanto astuto e sottilmente infido, in tutta franchezza). Il cinema, da sempre e per sempre, e adesso più che mai, per fortuna scivola via, perché è vivo, ha una mente e un corpo autonomi, è indipendente; non vuole essere inseguito, preferisce tornare lui da te. Oggi è lontano, domani chissà, dopodomani rientrerà a casa. Non trattiamolo né da bebè, né da schiavo; non serve sbracciarsi, accampare scuse, appellarsi al dovere morale della sacra passione per divulgare in verità vantaggi e immunità di casta. Lasciamo che i film, da veri sentimenti meravigliosi, rincasino con le loro gambe, e lasciamo che gli spettatori possano riaprire gli occhi.
Nessun potere giova al cinema: correre per riprenderselo e rintanarlo, perché “è per il suo bene”, è come incatenare una donna o un uomo e menarli, non preoccuparti lo faccio per te. Le parole di Frémaux esprimono un’attività di potere data ormai per scontata. E, per di più, accettata (oltre che promossa). Come se il cinema, oggi, avesse la necessità di riapparire, e non semplicemente di fare ritorno (da noi). E proprio oggi, quando l’esercizio del potere è pressoché universalizzato, senza età e senza onorificenze, e per cui ogni carica e ogni mestiere implicano un comando, un’ingiunzione, un ordine di pensiero, ecco, proprio oggi il cinema non merita un decreto. Non usiamo violenza sul cinema, è un atto ingiustificato, un sopruso sciocco. Ed io, che sono diverso per natura, mi ritrovo così a rimpiangere i tempi della normalità, quando i film giungevano inattesi, e quando non c’era bisogno che qualcuno li vestisse a festa per entrare in società.