Riassumiamo. Il 10 giugno HBO Max annuncia il ritiro temporaneo dallo streaming di Via col vento per “descrizioni razziste”, aggiungendo che il film tornerà presto in palinsesto con dovuta “contestualizzazione storica”; il mondo dei social, dei critici e dei cinefili insorge, questa è censura, si grida; gli articoli a corredo degli indignati libertari non si contano, per buona parte di veemenza incontrollata; qualche voce più cauta tenta una riflessione più dettagliata, ma resta vittima tanto di una prosopopea probabilmente non voluta ma evidente, quanto del torrente in piena di segno opposto; il 15 giugno è diffusa la notizia che sarà Jacqueline Stewart, professoressa di cinema all’Università di Chicago e presentatrice di Silent Sunday Nights sul canale a pagamento TCM - Turner Classic Movies, ad occuparsi dell’introduzione al film. Tutto è bene quel che finisce bene: Via col vento non è né cancellato, né oscurato, né tagliato, e la stessa Stewart sottolinea quanto sia importante che l’opera di Victor Fleming rimanga in circolazione, venga vista, analizzata e discussa, e soprattutto non subisca censure. Amen. Chiunque, o quasi, può riporre le armi, perché c’è una prova decisiva, indelebile e inattaccabile, che l’impegno di Jacqueline Stewart sia a fin di bene, massimamente circostanziato e debitamente ineccepibile: la donna è nera. Perciò, naturalmente, si presuppone che sappia di cosa parli. Che ne sappia, dunque, più di un bianco, più di un latino, più di un cinese.
Strano, ma non mi pare che qualcuno abbia ricordato i picchetti che inneggiavano al rogo di Vestito per uccidere, Cruising e Basic Instinct per le descrizioni “inverosimili” delle rispettive minoranze, “noi non siamo così”, “noi non siamo assassini” e via di questo passo. Nessuno all’epoca si è sognato di invocare alcun disclaimer: si invocava direttamente il fuoco, così si faceva prima. Altri tempi, si dirà, senza piattaforme. Però l’home video c’era eccome, ma per la sottocultura oh così offesa oh così irritata la dannazione dell’inferno era più comoda di qualunque “dichiarazione di non responsabilità”. C’è un solo spettatore che oggi veda quei film nello stesso modo? C’è un solo spettatore gay che oggi si senta ferito nel proprio onore? Perfino la critica di regime queer ha abdicato, vergognandosi di quelle isterie: le lagne di Lo schermo velato e di ogni intellettuale omosessuale avvinghiato alla propria militanza matrigna sono per fortuna acqua passata, e adesso un film come Cruising è addirittura percepito quale capolavoro queer (lo è sempre stato, giusto per sgombrare il campo da ogni dubbio). Di più: film come Vestito per uccidere e Basic Instinct sono oggi testi fondamentali per riflettere sulla natura della donna e dell’uomo nella società, senza nessun sospetto di omofobia (anzi!).
Ma come la mettiamo se quelli che oggi lamentano di Via col vento il razzismo e, tutto sommato, la pochezza sono gli stessi che si dolgono con il cuore in mano perché William Friedkin ha fatto sparire da ogni copia di Cruising il murale iniziale “We are everywhere” per timore – appunto – di ledere la dignità degli omosessuali “normali”? Il problema è il peccato originale, l’ipocrisia, che chi predica bene sente lontana da sé ma poi, razzolando male, vi aderisce. L’ipocrita è un intero universo, una grammatica, l’alfabeto odierno. Ed è sommamente ipocrita che sia sufficiente una persona “in tema”, come nel caso di Jacqueline Stewart, a ridefinire i contorni mediatici di Via col vento, giustificandone infine la presenza nella contemporaneità, e a mettere in pace le coscienze. Credete che se si fossero fatti avanti David Bordwell o Francesco Casetti, entrambi bianchi, le cose avrebbero preso la stessa piega? Eppure anche loro sarebbero in grado di contestualizzare storicamente il film di Fleming. Ecco, dimenticavo, sono uomini, purtroppo oggi non giova. È noto, nella terra promessa, dove a sedere sul trono c’è uno dai capelli arancioni che minaccia perfino di licenziare la Corte Costituzionale quando non decide secondo i suoi gusti, l’ipocrisia è un abito da indossare tutti i giorni, non soltanto alle cene di gala; un vocale da spedire ogni ora (magari ritrattando o negando tutto, fake news, finzione, fiction!); un pensiero da articolare ogni minuto.
Sono davvero cambiati i tempi? Che differenza c’è rispetto a quando l’egemonia queer auspicava che tutti i film queer venissero sceneggiati e girati da veri omosessuali perché sanno di cosa parlano, e alzava invece il sopracciglio, quando non condannava apertamente, davanti a un film queer scritto e diretto da un eterosessuale? Cioè: così come non c’è nessuno come un nero che possa “spiegare” Via col vento, non c’è nessuno come un gay che sappia raccontare una storia gay. Da qui a esigere il rogo il passo è breve. L’oligarchia delle immagini, fateci caso, è ormai superata: delle immagini adesso conta la sterilizzazione, allo spettatore è chiesto non più la sospensione dell’incredulità bensì un superficiale consenso che fa rima con opinionismo indotto, e il cinema, che un tempo faceva esplodere conflitti ed era contemporaneamente capace di risolverli, ora è costretto a dare retta ad una correttezza che molti chiamano politica, ma che io preferirei chiamare etimologica. Da linguaggio storico, il cinema dovrebbe essere adesso pratica anestetica. E i film, stretti tra le morse dei divieti morali, diventano schiavi. Dalla grassa colf nera di Tom & Jerry alla bisessuale Catherine Tramell di Basic Instinct, tutto fa brodo, e poco importa che si tratti di genere o no: il 17 giugno Variety pubblica un articolo su 10 titoli “problematici che avrebbero bisogno di etichette d’avvertimento”, tra i quali trovano posto Sentieri selvaggi, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, Indiana Jones e il tempo maledetto e Il silenzio degli innocenti. Non c’è pace per niente e per nessuno, non per il cinema d’autore, non per il poliziesco, o il western, o l’avventura scanzonata, o il thriller. E chi sarebbe in questi casi più indicato per ammonire? Un comanche? Uno sbirro violento ma pentito? Un archeologo? Un travestito? La storia delle nostre immagini sarà fra 50 anni la storia di una segregazione sistemica, improntata alla narcotizzazione della visione e senza credibilità culturale.
Quindi io oggi sarei l’ideale per informare prima della visione di Cruising: no, certo, in quanto gay non sono un killer, non preoccupatevi; sì, in quegli anni le dark room andavano forte, si ballava fino a sfinirsi e si godeva a suon di popper (che va ancora molto, a dir il vero); c’era chi gradiva il fist fucking, ma erano in pochi; oggi siamo tutti più saggi, più tranquilli, l’omosessualità non deve fare più paura, non c’è bisogno di rintanarsi in club maleodoranti, viviamo felici e sicuri, tranne quando a qualcuno salta la mosca al naso e ci riempie di botte; alziamo però sempre la testa, orgogliosi, pride.