Quando la filmmaker Barbara Hammer rivendicava l’astrazione quale forma contro lo status quo della narrazione cinematografica tradizionale, era il 1993. Da allora di tempo ne è passato parecchio. E anche di acqua sotto i ponti. «Io porto sulle spalle il marchio della costruzione della percezione da parte delle forze sociali e delle istituzioni nelle quali vivo. L’architettura, la pubblicità, i sistemi educazionali, l’incoraggiamento alla famiglia e i film hollywoodiani hanno tutti plasmato la mia struttura di conoscenza e percezione»: per la Hammer fare un film era perciò, prima di tutto, fare la differenza, ottenuta attraverso un metodo di astrazione al fine di permettere allo spettatore di vedere e intervenire attivamente.
Quei regimi che, secondo le parole dell’artista lesbica, ratificavano l’individuo sociale, in madre! danno l’impressione di crollare. In superficie, il film di Darren Aronofsky sembra mettere in scena la travolgente rimozione dei complessi istituzionali che dominano il nostro vivere comunitario e, in particolare, la donna. È abbastanza evidente che il personaggio interpretato da Jennifer Lawrence rappresenti lo specchio delle intenzioni dell’autore, che attraverso lei si mostra disposto a smontare l’egemonia dei segni e dei significati che creano e modellano lo stato delle cose e, contemporaneamente, la prospettiva direzionale che quel medesimo stato delle cose implica e comanda. Lo fa con un horror che sfiora il demoniaco e abbraccia il grottesco; ma si tratta di un film volutamente scentrato, sbilenco, scivoloso, che rifiuta gli stereotipi di genere nel momento stesso in cui se ne appropria.
Un film dalla parte delle donne, dunque? Un film new feminist? La protagonista di madre! è una moglie premurosa e ansiosa. Il marito è uno scrittore famoso in crisi d’ispirazione. Lei ha rimesso in sesto la casa di lui, tutta da sola. Una casa enorme, isolata, dove la caldaia nei sotterranei pare possedere vita propria come quella di Una splendida festa di morte/Shining di Stephen King. Aronofsky è deciso: lei vive per lui, i suoi occhi, l’espressione costantemente apprensiva e interrogativa, la disponibilità totale (perfino a non infrangere la regola ferrea di non entrare nel suo studio se non accompagnata) lo dimostrano. È una donna al servizio del suo uomo (benché per amore, s’intende); la sua esistenza è il modello ideologico che lui chiede, tanto da essergli – chiaramente - musa. L’improvviso ingresso nel suo privato di sconosciuti un po’ troppo invadenti conduce inevitabilmente al disastro: l’home invasion è un attentato alle sicurezze, una pugnalata al cuore di un edificio che è riparo, rifugio e abito da indossare in qualunque circostanza, pure a una veglia funebre (un abito comodo, si badi, meglio ancora se un négligé scollato da cui può fare capolino un seno prorompente, simbolo di femminilità feconda). L’ignoto usurpa in questo modo la consuetudine della moglie, per giunta con la complicità generosa del marito, uomo caritatevole e magnanimo, quindi va bene così, ancorché sia tutto per lei un po’ fastidioso. Va bene così o quasi: guai a toccarle la cucina; quando poi la folla che ormai ha preso residenza nella casa, trasformandola in un’ade licenziosa e incomprensibile, mette le mani sul figlio appena nato, apriti cielo, apriti terra, apriti sesamo, la sua “entità” primaria e primordiale di donna viene definitivamente spezzata. E per lei, comprensiva, rispettosa e soprattutto fertile, è la fine.
A conti fatti, madre! è un perfetto film per il quale quella “politica dell’astrazione” di Barbara Hammer è ancora applicabile. Lo spettatore è chiamato a reagire, a “essere dalla parte di”, a dare un senso; ma Aronofsky è abile, perché sembra ostacolarne la partecipazione, impedirne ogni dieci minuti uno scontato coinvolgimento. «Questi film sono sullo scoprire», scriveva Richard Dyer a proposito di una lettura queer dei noir, nei quali l’incertezza era un fenomeno ingannevole e disorientante utile a condurre personaggio e spettatore a un finding out del sé. Ciò che scopre la protagonista di madre! è però la certificazione di un esistente reazionario, che vuole la donna oggetto di pulsioni scopiche prevalentemente maschili (e la dark lady interpretata da Michelle Pfeiffer, prepotente e sensuale, ne è soltanto una conferma) e soggetto che l’egemonia maschilista può ancora manovrare a discrezione, secondo criteri di gender appartenenti all’immaginario tradizionalistico. Da queer, nell’accezione però di uno scivolamento rispetto alla norma e alla previsione (scivolamento che il film sembra sollecitare), la donna di madre! torna ad essere la figura di una remissione antropologica, la convenzione originaria dell’universo, principio creato ad arte da un mondo virile - e bianco - che tutto vede e a tutto provvede. Una donna preoccupata e impressionabile per natura, irrequieta, confusa, smarrita. Nell’epoca hollywoodiana di Wonder Woman e di quello che alcuni definiscono precipitosamente subversive feminism (che esige per la donna il ruolo di potere maschile, la scrivania dei bottoni, la direzione dell’orchestra: un gran passo avanti rispetto allo yuppismo, non c'è che dire; e dov’erano questi commentatori da nichelino ai tempi di Donna Deitch?), un film come questo pare mettersi meravigliosamente di traverso, e inaugurare il new misogynism. La sua è una posizione di tiro inutile: perché madre! è il film più violentemente, insidiosamente, incoerentemente, irrazionalmente, paradossalmente, lombrosianamente misogino degli ultimi, insondabili anni.