Vedendo Blue Jasmine, mi chiedevo (un po’ retoricamente) quanti sono ancora gli spettatori e i critici che misurano il cinema di Woody Allen con la bilancia, su un piatto le battute, sull’altro le gag. La bilancia poi mi è tornata utile anche davanti all’ultimo Tsai Ming-liang: credo che da qualche parte ci sia ancora chi ne calcoli la riuscita in proporzione alla lunghezza di un piano sequenza o di un silenzio (su un piatto) e alla enigmaticità claustrofobica delle scene (sull’altro piatto). Suppongo che, usando queste bilance analogiche, ben registrate e tarate, il film debba essere bello se l’ago sta nel mezzo, e dunque se i due piatti sono a prova di livella a bolla; al contrario, se l’ago va e viene, con un piatto su e uno giù, forse c’è qualcosa che non va, forse il film è brutto.
Dovrebbe regnare insomma la parità. Anzi, la parificazione. Pari e patta: tutti sono contenti, sia i fan alleniani che con Allen vogliono principalmente ridere (quantunque con serietà, si tratta pur sempre di un intellettuale, e per di più ebreo), sia quelli che accendono il lume di fronte al santino di Tsai, evidentemente uno dei pochissimi in grado di fare delle domande e di dare anche delle risposte. Ma che pena questa benedetta parificazione! Che noia al cinema la medias res! Purtroppo è sempre difficile da digerire l’idea che lo squilibrio possa rispecchiare il mondo quanto uno sguardo realistico. Un po’ come è difficile da accettare che l’immaginazione sia capace di rappresentare la realtà.
Prendete un artista come Maurice Pialat: era tutto tranne che un realista; e che il suo cinema mettesse in scena la verità del reale soltanto perché aderente alle cose è uno dei vari miti da sfatare che lo riguardano. Pialat rifiutava perentoriamente ogni tipo di realismo: e i suoi film, così dentro la realtà, subivano gli scossoni e gli sbandamenti di uno stile ascetico eppure burbero, rigoroso eppure visionario. Che cinema vero, però, così fuori registro, quello di Pialat! Se usassimo la bilancia per quantificarne il valore, ci ritroveremmo i piatti addirittura fuori posto, caduti, spezzati, annientati da pesi insopportabili e, per ogni spettatore-droghiere che si rispetti, inconcepibili. Pialat la creava, la realtà, la immaginava, non la riproduceva; i suoi film prendevano le sberle e i pugni nello stomaco, venivano spettinati, altro che bilanciati!
Purtroppo il cinema con i piatti in equilibrio ha formato una lunga e non ancora interrotta generazione di spettatori e di critici che ama usare i suoi, di piatti, come strumenti privilegiati di gradimento. E che rimane costantemente disorientata nel momento in cui qualcuno comincia a farli traballare un pochino, questi stramaledetti piatti: guardate che fine ha fatto proprio Allen negli ultimi dieci anni, giusto per dirne uno. È una generazione ormai senza arte né parte, opaca e svenevole, che non accetta il disorientamento come esercizio intellettivo necessario.
Ciò che più preoccupa è la rarità di un simile smarrimento, sia in chi lo attua (il cinema), sia in chi lo subisce (lo spettatore). Però sentirsi smarriti non significa affatto rinnegare il reale, o evitarlo, Pialat l’aveva capito bene. D’altronde, le storie in cui i personaggi perdono la strada e non la ritrovano, non sono le più appassionanti? Basta col cinema e la critica di casa, in cui There’s no place like home.
Vorrei essere come l’abate Donissan, che in aperta campagna, in Sotto il sole di Satana, incontra nientemeno che il Diavolo. Pretendo di incontrare su ogni schermo, ad ogni immagine, in ogni pagina scritta e letta, un diavolo che non perda tempo a tentarmi e che mi scorti subito dove possa sentirmi confuso, magari annichilito. Non è da tutti i giorni incontrare un diavolo. E questo mi dispiace.
Pier Maria Bocchi