Evidentemente viviamo in un paese persecutorio. Dove è facile sentirsi perseguitati. E dove torna comodo e utile diffonderlo. Siamo così perseguitati che la persecuzione degli ebrei, al confronto, è stata un solletico. Sono tutti perseguitati, i condannati e i rimandati in appello, gli assassini e i presunti tali, chi siede in poltrona e la gente comune che fa la fila per pagare bollettini talmente persecutori che la Grande Inquisizione se li sarebbe sognati.
Povero popolo italico, così tormentato, così inopinatamente tiranneggiato da uno stato delle cose sadico e mostruoso. Ma come, un popolo così solare, così onesto, così buono, vessato in maniera così costante, così cieca e sorda di fronte alle continue richieste di aiuto. Aiuto! Aiuto! Aiutatemi! Aiutateci! Per favore, ridateci la nostra vita, quella spensierata di quando non avevamo grilli per la testa perché il nostro presente non presentava problemi, se non quello di mettere il pane sulla tavola. Adesso pure questo è un problema, perché il pane è rincarato. Oh, quanto è rincarato, il pane! E la pasta! E l’olio! Ma come faccio, che devo sfamare una famiglia intera? La mia famiglia! La nostra famiglia! La nostra Italia!
Povera Italia. E pensare che eravamo campioni del mondo. Campioni del mondo. Campioni del mondo. Suvvia, forza Italia! Perché anche in mezzo alla monnezza, l’italiano è sempre un bravo italiano. È un italiano retto e umile, moralmente ineccepibile anche a costo di sembrare un cretinetti, sposato e con prole, e poco importa se la moglie sembra scema.
Almeno questo è il ritratto di cui si fa portavoce L’ultima ruota del carro. Che bel ritratto dell’italiano medio, disposto a farsi in quattro per rimboccarsi le maniche, eppure perplesso davanti a cotanto marciume, morti ammazzati e bustarelle, raccomandazioni e favori; così perplesso che la sola risorsa è spalancare la bocca e rimanere di sasso, senza capacitarsi di come un paese così bello e così pieno di risorse possa recapitare avvenimenti così brutti. E meno male che c’è sempre qualcuno più bravo e più giusto degli altri, che da tonto al cubo non capisce, ma che però conosce quali sono i valori santi per cui vale la pena vivere.
Ah, beata ingenuità. Beata innocenza. Tanto noi siamo tutti innocenti e innocentisti, anche quando ci capita fra capo e collo una mazzata. Perché vedete, le mazzate, le condanne, i bollettini ci capitano addosso, c’arrivano contro, mica ce li meritiamo, mica li abbiamo invocati con il nostro comportamento persecutorio. L’Olocausto? Era Canzonissima, paragonato alla vita di merda di queste persone italiane che non chiedono altro di vivere in pace e di poter mettere i soldi in banca o sotto il materasso senza il pericolo che diminuiscano o addirittura spariscano.
Italiani brava gente. Ma proprio brava. Complimenti. Come potrebbe non essere brava, questa gente italiana così santa e ben poco puttana, quando il cinema dell’Italia che conta e che per giunta ha l’onore di inaugurare un Festival Internazionale (perdindirindina!) s’impegna a promuovere un uomo che sa fare tutto e non s’ha fare niente, e che non si spiega come il torto e il dolo possano esistere?
Come può non essere bravo e non commuovere l’italiano che non capisce un cavolo ma che capisce che in fondo un gratta e vinci quasi milionario, gettato nella spazzatura da una consorte che pulisce e cucina, che guarda l’orizzonte con sguardo ebete e che fa poco altro (un personaggio femminile davvero illuminante, non c’è che dire), non vale la vita che nostro signore c’ha donato, una vita di fatiche erculee con elettrodomestici trasportati sulla schiena per numerosi piani, una vita da facchini da sputare sangue?
Eccolo, il nostro bel cinema. Eccola, la sensibilità e l’urgenza del nostro mercato. Quando si parla dei ricchi (vedi, per esempio, Io sono l’amore e La grande bellezza), ci si mette in prima fila per il plotone d’esecuzione; ma quando si parla dei poveracci, quelli che tirano a campare, quelli dallo spirito beota ma puro, siamo chiamati ancora una volta ad applaudire e, quel che è peggio, all’immedesimazione.
Perché il protagonista di L’ultima ruota del carro sarà pure l’ultima ruota (e forse pure di scorta) di questo carrozzone di paese, ma dovrebbe essere prima di tutto lo specchio di ognuno di noi. Però mi si perdoni la domanda: per quale motivo oggi dovrei immedesimarmi in un uomo del genere? in un uomo piccolo e stupido che per irresponsabilità sovrana per poco non manda al creatore un’intera classe d’asilo, che osserva senza comprendere, che attraversa gli anni adoperando esclusivamente semplicità e buon cuore? Soltanto una storia?
No, questa non è soltanto una storia. L’ultima ruota del carro è l’esempio d’antologia di un sentire contemporaneo per il quale anche la sfiga e la povertà (economica e intellettuale) sono effetti di una sorte che ci ritroviamo a casa. Non possiamo far altro che allargare le braccia e accettare, chinando la testa in atteggiamento da persecuzione inevitabile.
Perché il cinema nostrano e odierno sente l’urgenza di raccontare questo mondo? Perché lo spettatore dovrebbe dargli retta? Aspettate, ho la risposta: perché noi siamo fatti così, siamo un popolo meraviglioso di persone buone come il pane (anche se troppo caro) che hanno la sventura di avere un destino avverso. E non ci passa neanche per l’anticamera del cervello che tutto ciò ce lo siamo forgiati da soli. Negli anni. Nel tempo.