Se proviamo a prendere le misure dello sguardo, oggi, nel cinema contemporaneo, prevalentemente quello hollywoodiano, ma non solo lì, a Hollywood, anche un po’ qui, in Italia, se proviamo a prenderne le misure, misurandone cioè ambizioni e risultati, ideologie e sensibilità, viene fuori un numero strano e paradossale. Un numero che tende all’infinito, e magari al sublime, ma che non ha neanche due cifre. Un numero piccolo, insomma, però con il vestito della domenica. Un numero che vuole essere primo.
È curioso quanto lo stile, di fronte alle sue scelte, vada tante volte nella direzione sbagliata. Prendete Revenant - Redivivo di Iñárritu: non c’è un campo/controcampo (anzi, forse uno sì, il sogno di un abbraccio: che non sia casuale?), solo piani sequenza messi assieme, uno in fila all’altro. D’accordo che il regista ne è ossessionato, specialmente se può giocare d’effetto (l’assalto dell’orso, la caduta nel precipizio), ma il discorso è un altro. In questo cinema, cioè il cinema del premio come specchio su cui truccarsi, la forma aspira alla sua reificazione. L’autore tende alla sacralizzazione del proprio sguardo, rendendolo uno e trino. Lo stile, allora, così inteso, è la sola creazione possibile. L’immaginario, e magari anche la realtà, ne prendono i contorni, la posa, la frontiera, la corona. Ciò significa che non esiste niente al di fuori dei margini, fuori dallo schermo, da questo stile. Più che di impudicizia, parlerei di assolutizzazione. Perché in uno sguardo del genere non può esserci dialogo, confronto, intervento dello spettatore: è lui e basta.
Quando la forma è meno aggressiva (o autoriale), la sensazione è spesso la stessa. In prodotti esecrabili come Creed – Nato per combattere o Zona d’ombra, la confidenza nello stile è un concetto di sistema, tanto che l’autore è l’industria stessa (e non certo il regista). Contare sulla memoria, santificandone le feste, è una strada così facile che è inevitabile e automatico sfiorire. Difficile vincere il ricordo, nel mercato contemporaneo: si finisce per farne una cartolina opaca (Joy di David O. Russell, tutto sommato il più interessante del lotto dei possibili riconoscimenti dell’establishment dello spettacolo), e raramente si è in grado di elaborarlo in maniera ragionevole e onesta (Dove eravamo rimasti di Demme).
L’esito però non cambia, lo sguardo rimane una condizione originaria, e al pubblico resta poco – per interloquire, per partecipare, per farsi sentire. Non è faticoso intuire perché J.J. Abrams ha fatto quel che ha fatto, con il suo Star Wars (che, ammettiamolo, non sta al passo con il suo Star Trek): chiama alle armi uno scenario previsto, lo raduna, lo lusinga, ma non fa niente – o quasi - per inventarne altri. Possiamo negarlo fin che vogliamo, ma non c’è vera differenza fra Room di Lenny Abrahamson (Greystoke in versione Boyhood: il film di Linklater comincia a mostrare i suoi danni), l’inetta consapevolezza cult di Bone Tomahawk di S. Craig Zahler (che in America si sta ritagliando l’aura di midnight movie di origine controllata) e, in apparente triplo salto mortale, Bella e perduta: sono film che, in forme diverse, usano lo sguardo per determinarne uno solo, campione e modello. Si comprende dunque che è da qui, da questo cinema prepotentemente monarchico, anche quando indossa panni “poveri”, sgualciti, sporchi, maleodoranti, o poetici (sic), che lo spettatore va alla deriva. Non sa cosa guardare perché quello che ha davanti è tutto ciò che ha da guardare.
In una tale sovranità di sguardo, allora, perde ogni senso la cosiddetta visione del mondo. Che rimane plausibile – e benvenuta – quando c’è un’opera di subordinazione della firma al cinema quale fenomeno privilegiato per rappresentare la persona e le cose. Non vuol dire toglierla, la firma, e neppure sacrificarla, bensì lasciare che a parlare per lei, con lei, sia il film. Mann, Spielberg, Scott, Gaudino, Bellocchio, Garrone, Haigh, Allen, per fare alcuni esempi odierni e da classifica noti a tutti, l’hanno capito: sono così forti da credere nelle loro immagini, da credere che esse possano essere sufficienti a intrecciare un legame con lo spettatore. E lui, lo spettatore, non è espulso dalla classe, ma ne è parte integrante e attiva, alza la mano, ascolta, vede.
Questo è un cinema giusto, doveroso, che non ricorre ad astuzie memoriali, ad arroganze retoriche, che non insegue le brame claustrofobiche del possesso del senso. Soltanto in questo modo di sguardi ce ne possono essere due, quello del film e quello del pubblico. Altrimenti a vincere è sempre e unicamente una misura fatta in casa o in ufficio, poco importa che si tratti di major, di genere o d’autore: nelle misure prese con la ratifica di un nome e di un’impresa, di un re e del suo regno, non esiste niente di più di un decreto di legge, da attuarsi secondo norme prestabilite, e niente di meno – quando va bene – di un marchio di garanzia che basta a se stesso. Posso accettare di scendere a compromessi con il mercato più evidente ed evidenziato (Mad Max: Fury Road, Fast & Furious 7, San Andreas, Fury, Sicario), a patto di prenderne le misure in prima persona, con il mio metro e i miei pesi (che non sono sempre vantaggiosi, ma talvolta sì), però non voglio dover credere a un cinema che adopera lo stile e lo sguardo come esemplari di un progetto educazionale. Se devo tramandare qualcosa alle generazioni successive, che sia allora una semplice dissolvenza incrociata, o, come The Hateful Eight di Tarantino insegna, un campo/controcampo.