C’è una madre che ammazza le sue tre figlie, e l’Italia tutta, stretta in un abbraccio comune, pensa bene di piangerle definendole angeli. Le vittime sono sotto terra a marcire, ma ci piace pensare che stiano svolazzando nell’alto dei cieli.
Volgari e consuete strategie mediatiche, si dirà. Certo che sì, però c’è qualcos’altro. C’è l’inevitabile adeguamento a un’ideologia beatificante che deriva dal tormento e dal martirio che ci hanno insegnato a scuola, in casa e in chiesa. Muori, ma dont’ u worry, finisci fra i santi.
L’Italia non è soltanto perdonista, è pure glorificante. Niente di più e niente di meno di un’educazione al lutto che trova la sua origine nella fonte battesimale. Chissà, forse nei paesi nordici la morte viene elaborata a suon di boschi e troll: da noi ci pensano la preghiera e il rosario; la bara, i vermi, la carne, il nulla sono pure astrazioni, rigorosamente vietate (e non soltanto ai minori di 18 anni).
Il contesto, insomma, fa la differenza. E non si capisce come potrebbe essere altrimenti.
Al cinema, invece, del contesto se ne fregano un po’ tutti, sia chi lo fa, sia chi lo vede (e ne scrive). Che cosa bizzarra. Un regista italiano va in tv a promuovere la sua nuova commedia, e ovviamente non può resistere dal citare i soliti tre nomi e la mamma di ogni nostro film, la commedia all’italiana; e via tutti al seguito, giornalisti, critici, cinefili.
D’altronde, se c’è ancora qualcuno che difende certo cinema hollywoodiano contemporaneo invocando l’artigianato anni ’70, come se oggi avesse ancora qualche senso, non ci dobbiamo meravigliare se nessuno osi più contestualizzare niente. Un po’ come i fanzinari dell’ultima ora (ce ne sono ancora?) che vanno in brodo di giuggiole quando vedono i gialli di Hélène Cattet e Bruno Forzani perché hanno le fattezze dei gialli italiani di quarant’anni fa.
Come mai il contesto spaventa? Forse c’è una ragione, tutto sommato semplice e lancinante: perché altrimenti non si salverebbe niente, o quasi niente. L’unico modo per difendere certe commedie nostrane odierne (al di là del favoritismo, che fa capolino quando meno te lo aspetti) è riferirle a un passato glorioso, altrimenti buonanotte; l’unico modo per farsi piacere buona parte del cinema hollywoodiano di oggi, da quello oscarizzato all’indie meno scoperto, è metterlo in relazione a un mercato ormai leggendario e per molti versi epico, altrimenti stiamo freschi. E il contesto, ovvero questo mercato, questi giorni? Poco importa, facciamo finta che.
Facciamo finta che ci sia ancora l’Italia di Risi/Monicelli/Scola, facciamo finta che di là dall’oceano ci sia ancora l’America della New Hollywood: tanto nessuno se ne accorge; se poi un critico ha pure una buona penna, gli ci vuole poco a essere convincente. Cioè, se bastano due minuti di un servizio telegiornalistico qualunque per convincerci che tre cadaveri siano finiti direttamente fra le nuvole senza passare dal via, non ci vogliono più di cinque righe a persuaderci sull’effettiva (effettiva?) utilità (utilità?) della nuova commedia italiana o del nuovo artigianato hollywoodiano. Sapete come si fa? Basta scrivere che rispecchiano il presente. Quale? Come? In che modo? A che pro? Chissenefrega, basta scriverlo; che poi sia un’invenzione bell’e buona è un capriccio – guarda caso – perdonabile.
Ecco perché non c’è più nessuna corrispondenza al reale: il vero, oggi, è un artificio; non esiste nessuna verità, ma soltanto tante verità quanti sono coloro che ne scrivono. Se non c’è più nessuna bellezza (grande o piccola), ma soltanto mille bellezzine in mille occhi diversi per colpa della democratizzazione del gusto, non può che esserci una moltiplicazione di riscontri, una cacofonia di realtà.
A guadagnarci, in questo caso, è esclusivamente l’autore della (sua) verità, che si fa bello con le sue stesse parole. Tutti gli altri, se appena appena un po’ illuminati, scuotono la testa, sennò rimangono incastrati. Alla fin fine, non è colpa loro se fra la povertà demoralizzante e un trucco di magia, scelgono quest’ultimo. Sim sala bim!