Un banale infarto ci costa la perdita a soli cinquantaquattro anni di una figura che ha un peso nella storia del cinema italiano superiore a quanto gli viene abitualmente riconosciuto e che attraversa lo stesso cinema con ruoli diversi ma sempre stimolanti.
Parliamo di Gianni Puccini e iniziamo a farlo attraverso un film che, a suo modo, lo racconta. Nel 1975 esce infatti Il fratello, con scarso successo ma grande attenzione da parte di chi bene o male ne conosce le motivazioni. È la storia di un insegnante di borgata che vive un rapporto conflittuale con il fratello maggiore, regista di successo cui pure lo legano idee, amore per il cinema, militanza comunista. L'annuncio che è stato ricoverato d'urgenza per una crisi cardiaca gli fa scattare il complesso meccanismo della memoria. Traslati nel film sono l'autore, Massimo Mida, all'anagrafe Puccini, e appunto Gianni Difficile, distinguere la finzione dalla vita, ma la pellicola – pur nei suoi limiti – resta uno straordinario esempio di cronaca familiare, ben resa da un Riccardo Cucciolla in piena forma.
Massimo, che – ad averlo conosciuto – è persona assai sensibile e di grande onestà intellettuale, cresce all'ombra del fratello e ne preserva la memoria fin che campa. A sua volta critico, sceneggiatore, documentarista, regista, pare seguire (o proseguire) in tono minore le strade battute dal fratello. Gianni ha una marcia in più. Redattore di Bianco e Nero e poi di Cinema di cui diventa direttore nel 1943, innovatore come esegeta e cultore di estetica, tra gli sceneggiatori di Ossessione (1943, di Visconti), collaboratore di De Santis per i testi di tutti i suoi film da Caccia tragica (1947) a La strada lunga un anno (1958), esordisce nella regia con Parola di ladro (1957) in coppia con Nanni Loy, con il quale dirige anche Il marito (1958). Firma in seguito, quasi tutti su propria sceneggiatura, L'impiegato (1960), Il carro armato dell'8 settembre (1960), L'attico (1962), un episodio di I cuori infranti (1963) e, in tutt'altra direzione, I sette fratelli Cervi (1968), finalmente condotto in porto dopo vari tentativi falliti. La commedia è il suo genere favorito, ma l'occhio caustico con il quale guarda al nuovo ceto medio, l'analisi satirica che riserva ai suoi sogni piccoli piccoli, lo discosta dal pressapochismo e dalla volgarità del genere di quegli anni. Per certo ci avrebbe riservato altre sorprese.