Esequie semiclandestine, da Milano a Grosseto, di Luciano Bianciardi, mancato tragicamente due giorni prima.
«E' ricoverato in coma epatico all'ospedale San Carlo di Milano, dove muore all'alba del 14 novembre. […]. In una livida piovigginosa giornata milanese, il carro funebre che lo ha prelevato dall'obitorio deserto, prende la via di Grosseto. Sul piazzale ci sono Maria, Marcello e Sergio Pautasso» (Maria Jatosti, Ricordo in forma di cronologia di Luciano Bianciardi, in Bianciardi!, Isbn Edizioni, Milano 2008, p. 18).
«Quell'attimo arriva il 14 novembre, mattina senza pioggia, molto fredda, dopo diciannove giorni di agonia, dopo quarantanove anni di vita agra. Due giorni dopo, da Grosseto, arriva il furgone funebre mandato dal Comune.
Nella Vita agra, dieci anni prima, Luciano aveva scritto: "No, io voglio un funerale all'antica, e l'ho scritto nel testamento, un funerale laico, ma d'una certa solennità. Laico, ma tradizionale. Non ci voglio i preti, ma gli ex preti ce li voglio, ci voglio quelli che hanno buttato la tonaca alle ortiche e si sono fatti comunisti, pur restando preti nell'animo. Ne voglio quattro, di questi preti, spretati e togliattizzati, e poi voglio due cavalli neri col pennacchio in capo, due critici letterari a cassetta, ai quattro cordoni del carro ci voglio nell'ordine uno storico, un critico d'arte, un funzionario di casa editrice e un redattore di terza pagina. Dev'essere un bel funerale. Dietro venga chi voglia, tranne le segretariette secche. Loro no. Poi si scordino pure di me, ma il funerale lo esigo bello, solenne e, come ho detto sopra, laico. Perché troppi amici ho visto morire malamente, e peggio ancora essere accompagnati al camposanto".
Alla partenza del furgone c'è Maria in un angolo che piange. La bara scivola dentro, l'autista e il becchino chiudono il portellone. Ci sono quattro persone con i cappotti chiusi, venuti per salutarlo. Uno è Vacchelli. Il secondo è Sergio Pautasso: “Finché campo non dimenticherò lo squallore di quel funerale”. Gli altri due non se li ricorda più nessuno» (Pino Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 190).
Il luniere di complemento, quella domenica mattina in servizio presso l'ufficio comando del Gruppo Artiglieria da Montagna di Susa, apprende dalla radio la notizia come un fulmine a ciel sereno, avendo avuto il privilegio di incontrare quotidianamente il grande scrittore in non del tutto volontario esilio a Rapallo, nella seconda metà degli anni Sessanta, ma ignaro della sua tragica scelta autodistruttiva finale. Gli deve una serie di affermazioni fondamentali e di battute indimenticabili, che terrà per sé.
Il cinema italiano, in forma più pubblica, gli è invece debitore dei soggetti ovviamente de La vita agra (di Carlo Lizzani, 1964) e de Il merlo maschio (di Pasquale Festa Campanile, già proprio 1971, dal suo racconto “Il complesso di Loth” di tre anni prima), per il quale è anche cosceneggiatore e interprete, nel ruolo di uno dei violoncellisti di fila dell'orchestra. Nel 1992, per la regìa di Francesco Falaschi, l'Amministrazione Provinciale di Grosseto, nel settantesimo della sua nascita, ha prodotto il video didattico Addio a Kansas City. Luciano Bianciardi, uno scrittore e il suo tempo. Tre anni dopo, la figlia Luciana aveva fatto seguire Frammenti di “Vita agra”, regìa di Mario Andrei.
Nel 2007 Massimo Coppola gli ha dedicato il documentario Bianciardi!, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia e contenente interventi di Maria Jatosti, Enrico Vaime, Sergio Pautasso, Luciana Bianciardi, Mario Dondero, Carlo Ripa di Meana, Carlo Lizzani e altri.
Numerosi - soprattutto nella sua Toscana - i lavori teatrali postumi su di lui.