Sono molti gli scrittori che si sono cimentati nella critica cinematografica, in vario modo allettati o dalla passione o dal possibile facile guadagno o dall'altrui supposizione che potessero nobilitare un'incerta professione. Si ricordano, in ordine sparso, oltre al più assiduo Alberto Moravia, Corrado Alvaro, Vasco Pratolini, Mario Soldati, Aldo Palazzeschi, Oreste del Buono, il pulcinellesco Giuseppe Marotta, l'impresentabile Marco Lodoli, e perfino poeti quali Attilio Bertolucci e Mario Luzi o l'onnivoro Cesare Zavattini.
Ma un posto particolare lo occupa Ennio Flaiano, di cui oggi si ricorda il genetliaco.
Narratore, giornalista, drammaturgo, umorista e aforista tra i più citati, ricordato da molti come importante collaboratore ai soggetti e alle sceneggiature dei film di Fellini (La strada, La dolce vita, 8½ e altri 7), anche se la sua attività in questo ambito dal 1947 al 1971 si estende a registi quali Marcello Pagliero e Alessandro Blasetti (4 ciascuno), Luigi Zampa, Luciano Emmer e Gianni Franciolini (3), Romolo Marcelllini, Alberto Lattuada, Camillo Matrocinque, Mario Soldati, Mario Monicelli, Dino Risi e Gian Luigi Polidoro (2), ma anche Renato Castellani, Roberto Rossellini, William Wyler, Domenio Paolella, Michelangelo Antonioni, Antonio Pietrangeli, Eduardo De Filippo, Pietro Germi, Elio Petri ecc. Ebbene, costui prende sul serio – nonostante qualche conflitto di interessi – anche la critica.
La esercita dal 1939 su Oggi, il settimanale di impronta longanesiana diretto da Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, poi dal 1941 su Documento e dal 1944 su Star, settimanale cinematografico diretto da Ercole Patti e dal 1945 su Domenica, Bis e Cinelandia (che anche dirige) prima di approdare a Il Mondo, la nuova rivista di Pannunzio, ove si registra dal 1949 al 1951 la sua partecipazione più intensa. Sebbene in modo non sistematico tutta questa produzione (più scritti sul cinema occasionali successivi, ad abundantiam) ci sono stati raccolti in due volumi Rizzoli: Lettere d'amore al cinema (1978 ), Nuove lettere d'amore al cinema (1990), e in un volume Bompiani: Ombre fatte a macchina (1996), il primo e il terzo a cura di Cristina Bragaglia e il secondo di Guido Fink.
Lucido, umorale, qualche volta profetico, anche se con qualche vizio da intellettuale. Ma merita riportare una sua curiosa osservazione del 1959, sulla quale si potrebbe anche meditare:
«Il cinema non è arte, anche nel migliore dei casi. Nessun film mi ha mai commosso e potrà mai commuovermi per tutta la vita (faccio i grandi nomi, tanto per capirci) come una sonata di Bach, due versi di Leopardi o di Catullo, un ritratto di Raffaello, un capitolo di Tolstoj o di Manzoni. Il film migliore mi commuove per un anno, tre, dieci, poi scopre i suoi limiti, rivela la sua natura, le spurie necessità che lo hanno prodotto, la permanenza nelle sue immagini di una realtà non trasfigurata... che il tempo rende goffa o incomprensibile addirittura. Il film migliore sfida appena la generazione seguente a quella che l'ha prodotta, poi diventa “documento”.»
Figuriamoci, allora, la sorte del critico!