Se avesse optato per il cognome della madre, il sangue misto azteco Antonio Oaxaca forse avrebbe avuto un destino diverso. Invece ebbe la fortuna di optare per il cognome del padre, Quinn, che comunque era mezzo irlandese e mezzo maya, e – botta di culo ancora maggiore – ormai ribattezzato Anthony, di sposare Katherine, la figlia adottiva di Cecil B. DeMille.
Cosicché, ad appena 21 anni, lo troviamo nel cast di La conquista del West (1936) e subito dopo attivo in altri film del suocero (I filibustieri,1938; La via dei giganti,1939). «Con quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così» viene però relegato a ruoli "etnici", tanto che nel 1947 è già un veterano con più di 50 film al suo attivo, ma ha recitato praticamente solo come pellerossa, mafioso, hawaiiano, filippino, cinese, arabo e via esoticizzando.
Migliori soddisfazioni gliele procura il teatro quando nel 1951, sostituendo nelle repliche Marlon Brando, è un apprezzato Kovalski in Un tram che si chiama Desiderio (non a caso ha frequentato l'Actors' Studio), e indirettamente lo stesso Brando: ottiene infatti l'Oscar per Viva Zapata! (1952, di Kazan) nel quale ha il ruolo del fratello del protagonista.
Anche Kirk Douglas gli porta fortuna: non solo gli procura un secondo Oscar (per il personaggio di Gauguin in Brama di vivere, 1956, di Minnelli, ove Kirk è Van Gogh), ma gli apre involontariamente la carriera italiana. Infatti, assoldando Douglas per il suo Ulisse (1954, di Camerini), il fiuto del produttore Dino De Laurentiis vede in Quinn (che vi ha un piccolo ruolo) una carta da giocare: dapprima per un Attila (1954, di Francisci), ma subito dopo per il ben più memorabile Zampanò del felliniano La strada.
Il “bruto” gli si adatta perfettamente. “Con la sola forza dei muscoli pettorali, ovverosìa del petto” potrebbe essere il suo slogan. Ma con il trascorrere degli anni il personaggio saggiamente si affina (fisico non più atletico, capelli ingrigiti, voce roca) e diventa più credibile, anche se non è facile districarsi nella carriera dell'interprete di oltre 300 film.
Proviamo a citarlo per Notre Dame de Paris (1956, di Delannoy), Selvaggio è il vento (1957, di Cukor), Ultima notte a Warlock (1959, di Dmytryk), Ombre bianche (1960, di Ray), I cannoni di Navarone (1961, di Lee Thompson), Barabba (1962, di Fleischer), Lawrence d'Arabia (1962, di Lean), sino al celeberrimo Zorba il greco (1964, di Cacoyannis).
Ci piace comunque ricordarlo per il da noi vietatissimo Il leone del deserto (1980, di Moustafa Akkad), ove è il vigoroso capo beduino Omar al Mukjhtar che combatté le truppe di Mussolini in Libia, e per lo splendido Long John Silver nel televisivo L'isola del tesoro (1987, di Antonio Margheriti da un progetto di Renato Castellani). E fanno finalmente tenerezza le ultime affettuose presenze (Jungle Fever, 1991, di Spike Lee; Last Action Hero, 1993, di John McTiernan; Il profumo del mosto selvatico, 1995, di Alfonso Arau).
A conferma del suo vigore, o della sua incoscienza, allorché muore il 3 giugno 2001 a Boston, all'età di 86 anni, lascia 13 figli, avuti da due mogli e da tre amanti ufficiali. Anche questa è Hollywood.