Nell'anniversario della nascita di Mario Soldati, come ricordarlo?
Escludiamo lo scrittore, quello di Fuga in Italia, A cena dal commendatore (compreso il delizioso racconto La giacca verde, poi altrettanto delizioso film di Franco Giraldi, che può essere letto come un ritratto autobiografico: la storia di un appassionato – di musica, ma potrebbe esserlo di letteratura, di cinema o di tv – che si spaccia per un altro da sé e ci prova, seppur un po' deluso dalla vita, molto gusto), Le lettere da Capri, La confessione, Il vero Silvestri e via deliziando, in nome di una ben articolata gioia di vivere (nonostante tutto), simulando e dissimulando.
Escludiamo l'autore di due libri che hanno a che fare con il cinema: il punto di partenza, ovvero 24 ore in uno studio cinematografico (Corticelli, 1935; ora Sellerio, 1985), inizialmente pubblicato con il giocoso e mistificante pseudonimo di Franco Pallavera; e il punto d'arrivo: Da spettatore (Mondadori, Milano, 1973), che raccoglie le sue recensioni per L'Europeo e per L'Espresso degli anni 1963-1967, e ove manifesta – come in tutti i settori da lui affrontati – lucidità e preveggenza, curiosità e padronanza dei mezzi, abbinati però a un certo snobismo da buon conservatore e all'incostanza della ragione.
Escludiamo il “personaggio”, già occasionalmente attore (Mio figlio professore, 1946, di Castellani; Napoli milionaria, 1950, di Eduardo), quale si fa conoscere in televisione come conduttore di popolari inchieste (Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, 1957, e Chi legge? Viaggio lungo le rive del Tirreno, 1960) e come ideatore della prima miniserie o sitcom (I racconti del maresciallo, 1968, di Mario Landi).
E spostiamo l'attenzione sul regista, ma non quello delle mirabili o comunque degne trasposizioni letterarie (Piccolo mondo antico, 1940; Malombra, 1942; Le miserie del signor Travet, 1945; Daniele Cortis, 1946; Eugenia Grandet, 1946), o del suo curioso ma sempre stimolante vagolare con bravura, nel decennio successivo, tra pseudo neorealismo (Fuga in Francia, 1948), pseudo psicologismo (La provinciale, 1952), pseudo thriller (La mano dello straniero, 1953), pseudo divismo (La donna del fiume, 1954) e operazioni nostalgia (Italia piccola, 1957; Policarpo ufficiale di scrittura, 1958, che segna il suo addio al cinema, lui che camperà altri quarant'anni).
In omaggio alla sua definizione del cinema («un'arte minima, che ha bisogno di tutte le altre»), appuntiamoci dunque sugli otto film gagne-pain (per dirla alla francese) che realizza a tempo di record, e persino in contemporanea, in poco più di due anni. Lui che per motivi alimentari non disdegnerà la regia di seconde unità (Guerra e pace, 1955; Ben Hur, 1959), pare divertirsi un mondo nell'affrontare generi e sottogeneri popolari o nel dirigere i comici del momento, assicurando spesso peraltro un analogo “divertimento” anche agli spettatori esigenti. Nascono così i due film sul banditismo (Donne e briganti, 1950, e Le avventure di Mandrin, 1952), i due film salgariani (I tre corsari e Jolanda, la figlia del corsaro nero, entrambi del '52). Quanto alla commedia, più che Botta e risposta (1950), legato alla vetusta comicità di Nino Taranto, eccellono per garbo, humour e freschezza, garantiti da un innovatore Walter Chiari in piena forma, È l'amor che mi rovina (1951), O.K. Nerone (1951) e Il sogno di Zorro (1952), ancor oggi più che godibili, anche quando scivolano nel farsesco.
Lavorare per la michetta (per dirla alla milanese) può dare buoni frutti, certo migliori di quelli che godono dell'etichetta stracult.