«Io quando ho conosciuto Totò lui mi disse: "Lei è il conte Bentivoglio?" perché credo che come attore non si interessasse assolutamente di me. E allora quando lo conobbi lui lavorava con la Magnani, a proposito mi alzo in piedi quando parlo della Magnani, noi invece stavamo con la Za-bum, c'era il coprifuoco, c'erano i tedeschi, io stavo con Sordi e tutti gli altri del gruppo di Mattòli e lavoravamo con Mattòli. Un giorno mi presentarono a Totò e lo conobbi appunto lì e lui mi disse: “Lei è il conte Bentivoglio?" e cominciammo a parlare di araldica e lì finì, solamente parlando di araldica. Lui mi tirò dentro nella compagnia per potere parlare di araldica. Piccolo aneddoto: lui aveva il libro d'oro della nobiltà italiana e dove c'era la data di nascita l'aveva bruciata con la sigaretta perché non voleva che si sapesse l'età che aveva.»
Niente di meglio di questo parlatissimo brano di intervista per introdurre il personaggio di Galeazzo Benti, discendente da una nobile famiglia risalente a un Giovanni I Bentivoglio che, alleatosi con i Visconti di Milano, dopo la cacciata del Legato Pontificio, divenne Signore di Bologna e Gonfaloniere di Giustizia a vita il 14 marzo 1401, ma a noi noto per ben altri motivi. Fu il conte nonno a imporgli per vie legali di troncare il cognome quando seppe che Galeazzo intendeva trascinarlo “nel fango del cinematografo”, ma il sangue non è acqua e – sia pur monco – il Bentivoglio (1923-1993) rappresentò burlescamente, prima sulle colonne del Marc'Aurelio e poi sullo schermo (ma anche nella vita), una certa nobiltà fatua, vacua e fannullona, pronta a sposare le mode e le manie del momento.
Emulo (o precursore) di Alessandro "Dado" Ruspoli, principe di Cerveteri (1924-2006), dandy e playboy, grande animatore della vita di via Veneto negli anni '50 e '60, o di don Jaime de Mora y Aragon (1925-1995), playboy, viveur, esibizionista, bugiardo, truffatore e gentiluomo, noto come Fabiolo in quanto fratello di Fabiola, religiosissima moglie del re Baldovino del Belgio.
Ma mentre costoro, entrambi suoi coetanei, nel cinema furono poco più che meteore (Dado lo troviamo, più o meno come se stesso, e non più giovane, in La casa del sorriso, Ferreri, 1988, ll padrino – Parte III, Coppola, 1990, e nel primo episodio del televisivo Le avventure di Indiana Jones, 1993; Fabiolo, reso famoso da Il giudizio universale, De Sica,1961, esaurisce la sua attività in Nicola e Alessandra, Schaffner, 1971, e Mania di grandezza, Oury, 1971), ben diversa è la “carriera” di Benti.
Esordisce nel cinema addirittura nel 1942 (I tre aquilotti, Mattòli), primo di una sessantina di film in poco più di dieci anni, ma è con L'imperatore di Capri (Comencini, 1949), nelle vesti del gagà Dodo della Baggina, ruolo replicato con l'esistenzialista Poldo di Totò a colori (Steno, 1952), che si afferma presso il grande pubblico. Con il principe de Curtis – araldica a parte – è già apparso o apparirà in I due orfanelli (1947), Fifa e arena (1948), Tototarzan (1950), tutti di Mattòli, e Totò all'inferno (Mastrocinque, 1954), non semplice spalla quanto attore autonomo. Ma lo si ricorda anche per i personaggi disegnati in Amor non ho... però... però... (Bianchi, 1951), Parigi è sempre Parigi (Emmer, 1951), Carosello napoletano (Giannini, 1954), Un americano a Roma (Steno, 1954).
L'anno successivo, compie il gran rifiuto: basta con il ruolo del gagà, e, capitato casualmente in Venezuela, basta anche con l'Italia. Solo un quarto di secolo dopo vi rimette piede, quando la sua vicenda viene narrata non troppo benevolmente in La terrazza (Scola, 1980), e gli si aprono alcune belle occasioni: Il commissario Lo Gatto (Risi, 1987), Io e mia sorella (Verdone, 1987: addirittura un ruolo drammatico), Mortacci (Citti, 1989), Il conte Max (Christian De Sica, 1991), Rossini! Rossini! (Monicelli, 1991).
L'aspetto è mutato, grazie anche a una folta barba rossiccia, ma lo spirito è pur sempre cazzuto. Buon sangue non mente.