Dei cinque vitelloni di felliniana ascendenza, due in quel 1953 sono destinati a rappresentare, in modo spesso analogo ma con fortune diverse, il supposto carattere italiano. Tutti sanno tutto di Alberto Sordi, ma pochi ricordano ancora il seduttore, truffatore, fedifrago, meschino, sbruffone, cinico e volgare, soprattutto vile Franco Fabrizi, almeno come compare sugli schermi nazionali.
Piacentino di Cortemaggiore (quella della benzina), classe 1926, figlio di un barbiere e di una fatidica cassiera di cinema, attore da fotoromanzi, indossatore, ottiene la sua prima parte importante in Cronaca di un amore (1950) di Antonioni: il già emblematico presentatore di una sfilata di moda. E una delle sue ultime apparizioni è, molti decenni dopo, quella nei panni di un disinvolto e abietto conduttore televisivo in un film funereo quale Ginger e Fred (1986) di Fellini. Ecco, Fabrizi (un cognome peraltro scomodo) è destinato a “introdurre” non fosse che un tocco di antipatia in vicende d’ogni genere e a secondeggiare accanto a più fortunati interpreti.
Dicono che assomigli a Cary Grant, ma in lui il bello si riduce a belloccio, il sentimentale a melenso, il riflessivo a fatuo, l’affidabile a inattendibile. Eppure, appena compare sullo schermo corre un brivido – al pari del vilain nei western – e si capisce che nulla sarà più come prima, e che il film senza di lui perderebbe in mordente, e anche in autenticità. Pensiamo almeno a La romana (1954) di Zampa, a Il bidone (1955) di Fellini, a Le amiche (1955) di Antonioni, a Un maledetto imbroglio (1959) e a Signore e signori (1965) di Germi, a Io la conoscevo bene (1966) di Pietrangeli, per restare al cosiddetto cinema d’autore.
Quando si trova di nuovo accanto a Sordi – è La vita difficile del 1961 – «a differenza del compagno ex vitellone che alla fine ha il coraggio di riconquistare la propria dignità, lui percorre fino in fondo la strada dei compromessi». Così Maurizio Porro (“Corriere della Sera”), che aggiunge: «Fabrizi si toglieva gli anni, coltivava i vezzi del divo molto professionale, quel simpatico pavoneggiarsi di chi era stato molto ammirato [...]. Eterno scapolo, adduce la forza dell'abitudine con correzione melodrammatica: aveva dichiarato eterno amore alla sua partner Pampanini, che però non lo volle. [...] Coraggioso: sopravvisse al crollo della fama, ai guai col fisco, a un gravissimo scontro d'auto, ai raggiri di amici bidonisti [...]. Si era scritto da solo l'epitaffio: “Uno che in 150 film ha rappresentato la degenerazione del vitellone, cioè il farfallone”». È, appunto, il 18 ottobre 1995.