Alla metà del secolo scorso i sinceri democratici di tutto il mondo presero a emozionarsi per gli attori afroamericani cui Hollywood cominciava a riservare ruoli da protagonista. A cominciare dal bellissimo Harry Belafonte e dalla sua partner Dorothy Dandrige di Carmen Jones (1954), anche se, trattandosi di un all black musical, il gioco era solo parziale. Lo stesso Belafonte offrì un'altra emozione, con relativo scandalo, quando tre anni dopo per la prima volta si assistette sullo schermo a un bacio tra un nero e una donna bianca: la prediletta era Joan Fontaine (o si trattava di Joan Collins?) e il film L'isola nel sole.
Ma il primo a raggiungere la dimensione di star fu l'altrettanto bello Sidney Poitier (nato in questo giorno), che non si limitava a dominare lo schermo ma lanciava anche messaggi interrazziali, talora contrapposto in positivo a bianchi di dubbia fama. Eccolo in rapida successione chirurgo nero alle prese con un vendicativo bandito razzista (Uomo bianco, tu vivrai, 1950), caposquadra di scaricatori molto più umano del collega bianco (Nel fango della periferia, 1957), indipendentista keniota contrapposto a un pur innovatore colono bianco (Qualcosa che vale, 1957), galeotto in fuga forzatamente avvinto per un polso a un diffidente compagno bianco (La parete di fango, 1958), psichiatra militare nero con in cura un antisemita, razzista e filonazista (La scuola dell'odio, 1962), ingegnere idealista alle prese con irrequieti studenti proletari (La scuola della violenza, 1967), prima di approdare nel medesimo anno ai fasti di La calda notte dell'ispettore Tibbs e di Indovina chi viene a cena e già avendo ottenuto un Oscar – detto per inciso unico attore di colore sino al 1990 di Denzel Washington – e un Golden Globe nel 1964 per l'innocuo I gigli del campo: un vagabondo che accorre in ausilio di cinque monache. Tutto bene? Tutto come risulta nel 2002 dal suo discorso di accettazione dell'Oscar alla carriera? Attori come Poitier non servivano forse a far dimenticare più gravi stati di tensione, discriminazioni lontano dalle luci dei riflettori, indigenze mantenute ad arte e assistenze negate? Altro che Black Power!
«Sono qui stasera al termine di un viaggio che, nel 1949, sarebbe stato considerato praticamente impossibile. E, difatti, nulla si sarebbe messo in moto se non vi fosse stato un numero inestimabile di scelte coraggiose ed altruistiche intraprese da un manipolo di creatori visionari americani: registi, scrittori e produttori, ciascuno con un forte senso di responsabilità civile verso l'epoca in cui viveva. Ciascuno senza paura di consentire alla propria arte di riflettere le proprie visioni e i propri valori – etici e morali – e per di più, riconoscerli come propri. Erano consapevoli delle difficoltà che si ergevano di fronte a loro, i loro sforzi furono immani e con ogni probabilità avrebbero potuto rivelarsi troppo faticosi per farcela. Nondimeno essi perseverarono, comunicando attraverso la propria arte alla parte migliore di ciascuno di noi. E io ho beneficiato dei loro sforzi; l'industria del cinema ha beneficiato dei loro sforzi; l'America ha beneficiato dei loro sforzi; e in misura maggiore e minore anche il mondo ha beneficiato dei loro sforzi.»
Forse non è un caso che il nome di Sidney Poitier sia citato esplicitamente (e non benevolmente) nel recente The Butler (Un maggiordomo alla Casa Bianca), biografia di un “negro di casa” contrapposto al “negro di campo”, come distingueva Malcolm X. E che, come il “maggiordomo”, questo “negro di Hollywood” abbia ricevuto da Barack Obama nel 2009 la Medaglia presidenziale della Libertà. Fra arrivati ci si intende.