Si direbbe la settimana dei direttori della fotografia: dopo Marcello Gatti e Douglas Slocombe, tocca a Henri Alekan (o Alékan), nato a Parigi in questo giorno da famiglia di origine bulgara.
È un omaggio alle persone ma ancor più alla loro nobile professione – non a caso, altrove, giustamente denominata cinematographer, a comprendere il tutto – spesso obnubilata o conculcata dai cosiddetti “autori”.
Già operatore nel 1925, poi allievo del grande Eugen Schüfftan, Alekan partecipa alle riprese di La vie est à nous (1936, di Jean Renoir) e lavora nei primi anni '40 con Marc e Yves Allégret, prima di entrare nella Resistenza, che celebrerà, giocando tra realismo e invenzione, in La bataille du rail (1946, di René Clément).
La sua maestria di direttore della fotografia, unita all'attenzione per i rapporti con la pittura, domina a lungo, attraverso oltre 70 film, il cinema in Europa: da Jean Cocteau (La bella e la bestia) a Marcel Carné (La vergine scaltra, 1949, e Juliette o la chiave dei sogni, 1951), da William Wyler (Vacanze romane, 1953) a Jean Delannoy (La principessa di Clèves, 1961), senza dimenticare Jean-Pierre Melville o Jules Dassin (Topkapi, 1964).
Maestro della fotografia in bianco e nero, non si lascia cogliere alla sprovvista dall'avvento del colore, che ben padroneggia a partire da Napoleone ad Austerlitz (1960) di Abel Gance. Ma è anche il periodo in cui diventa uno dei bersagli preferiti della giovane critica della Nouvelle vague; tanto più quando collabora a grandi coproduzioni internazionali e a film americani ad alto budget girati in Europa (Il coltello nella piaga, 1962, di Anatole Litvak e lo stesso Topkapi, che pure è uno dei suoi capolavori).
Ottimo il suo lungo rapporto con Joseph Losey (Imbarco a mezzanotte, 1951, dove si ritaglia anche un cameo di prete in bicicletta; Caccia sadica, 1970; La trota, 1982), entusiasmante quello con Wim Wenders (Il cielo sopra Berlino, 1987, e Lo stato delle cose, 1982), sorprendente – Alekan ha ormai più di 80 anni – quello con Amos Gitai (Golem, l'esprit de l'exile, 1992, e Golem, le jardin pétrifié, 1993.
Proprio Gitai gli affida un ruolo in Naissance d'un Golem (1991), e così Wenders che lo vuole come interprete-simbolo in Così lontano, così vicino (1993), nel ruolo di un capitano della chiatta che porta in salvo i protagonisti, omaggio commosso a uno dei grandi vecchi del cinema.
La sua visione del lavoro fotografico è esposta in un'autobiografia illustrata dalle sue stesse immagini, Des lumières et des ombres (1984), che «rappresenta il suo testamento poetico e testimonia una volta di più il suo gusto estetizzante per un bianco e nero barocco, nel quale all'elegante densità dei neri si alterna una enorme varietà di chiaroscuri» (Stefano Masi); un secondo volume raccoglie i suoi ricordi (Le vécu et l'imaginaire, 1999).