Due anni dopo aver ricevuto un tardivo Leone d'oro alla carriera, muore a Roma il 16 maggio 1997, per attacco cardiaco, Giuseppe De Santis, nato in questa data a Fondi, in Ciociaria.
Residente da molti anni a Fiano Romano, ha girato il suo ultimo film (dal titolo involontariamente ironico: Un apprezzato professionista dal sicuro avvenire) nel lontano 1972 e da allora non ce l'ha fatta a collocare alcun progetto né presso i produttori né presso la tv di Stato.
Anche se pubblicamente se ne rammarica, in realtà ha optato per una serena esistenza privata, consapevole che il suo tentativo di “neorealismo hollywoodiano” è irripetibile e che bastano Caccia tragica (1947), Riso amaro (1949), Non c'è pace tra gli ulivi (1950), Roma ore 11 (1952) e il meno valutato Un marito per Anna Zaccheo (1953) ad assicurargli un posto, unico e di gran rilievo, nel cinema italiano, neorealistico e no.
È riuscito a coniugare gli stilemi appartenenti al cinema veristico americano, quello degli anni '40, e quelli del coevo cinema epico sovietico; è riuscito a far propria una tecnica efficace e seduttiva, che conta molto sui movimenti di macchina, specie aerei, e sulla focalità; è riuscito a calare in panni popolani attori che crea o avvia egli stesso al divismo (Silvana Mangano, Raf Vallone ma anche Lucia Bosè e Silvana Pampanini); è riuscito a trasmettere una personale ideologia marxista, semplificata a uso di più vasti ceti e appassionatamente nazional-popolare; ed è anche riuscito a scontentare la critica di destra e di sinistra, lui che, in tempo di guerra e di fronda, dalle colonne di Cinema, ha insegnato a molti di loro come si fa a essere intransigenti e insieme comprensivi.
Forse per una questione di partecipe umanità, il film che qui vogliamo privilegiare è Giorni d'amore (1954), transizione tra i vibranti drammi del passato e quelli, un po' stanchi e ripetitivi dell'incerto futuro (La strada lunga un anno, 1958; Italiani brava gente, 1964). Ambientata nella sua Ciociaria e deliziosamente colorata da Otello Martelli secondo i dettami del pittore Domenico Purificato, è una favola, all'apparenza sentimentale ma in realtà profondamente erotica come l'incantevole corpo di Marina Vlady, che non trascura il contesto sociale ed economico ma lo volge alla grazia di una danza popolare.