Anche il torinese-molisano Flavio Bucci, nato in questo giorno, è – a pensarci bene – un ossimoro come il titolo del primo film di Marco Tullio Giordana (Maledetti vi amerò, 1980) che lo fissò definitivamente nella memoria dei cinefili, o meglio degli amanti di un cinema di idee.
Certo, era già stato individuato, grazie all'intuito di Elio Petri, in La classe operaia va in paradiso (1971) e poi confermato dallo stesso come coprotagonista di La proprietà non è più un furto (1973); certo aveva dato buone prove di sé in L'amante dell'Orsa maggiore (Orsini, 1972), L'Agnese va a morire (Montaldo, 1976), l'inquietante Circuito chiuso (ancora Montaldo, 1978), Uomini e no (ancora Orsini, 1980), tutti film di un certo segno e che forse lo segnarono. E poi, anzi prima, la sua interpretazione un po' lombrosiana, del cinetelevisivo Ligabue di Salvatore Nocita (1977, Nastro d'argento) lo aveva fatto conoscere al grande pubblico, che in seguito lo avrebbe apprezzato nel truculento e volgarotto Marchese del Grillo (Monicelli, 1981).
Torniamo a Maledetti vi amerò, un film che resta epocale. L'ex sessantottino Svitòl, che torna in Italia dopo cinque anni di volontario esilio, si imbatte in tutti i possibili disastri ideologici ed esistenziali e non trova di meglio che intrecciare un ambiguo rapporto amicale con un commissario di polizia (l'ottimo anch'egli Biagio Pelligra), è già un ossimoro. Non ritrova però nemmeno se stesso (come gli dice un redattore di Lotta Continua: "Dei compagni ne uccide di più la depressione che la repressione") e si “scioglie” soltanto promettendo al commissario di svelargli trame eversive, per, dopo una peregrinazione romana ai luoghi deputati (via Caetani, piazza del Gesù e via Botteghe Oscure), farsi deliberatamente uccidere.
Ma un ossimoro è soprattutto il suo volto: come dire, una fisionomia “bizzarra”, al limite dello sgradevole, come dipinta da un pittore espressionista, forse addirittura da un fauve, ma – per la legge degli opposti – come non amarlo? Non lo capisce, almeno a partire dagli anni '80, il nostro miope cinema, riducendolo a rari ruoli di caratterista (ultimo il Franco Evangelisti, delfino di Andreotti, in Il divo, 2008, di Sorrentino), quasi un altro Piero Anchisi (col quale v'è una vaga somiglianza). C'è per fortuna la televisione a lasciargli degli spazi, anche non male, dal 1975 di Il lungo viaggio di Giraldi al 1989 dei Promessi sposi di Nocita, il regista del suo Ligabue, e infine il teatro nel quale da giovane si è formato e al quale ritorna periodicamente (tra l'altro un memorabile Shylock nel shakespeariano Mercante di Venezia).
Shylock, un altro personaggio da ossimoro.