Ad appena un anno dalla scomparsa di Thodoros (Theo) Angelopoulos viene già spontaneo chiedersi cosa resta e resterà di lui.
Per gli antichi detrattori – gli scettici e gli irridenti compresi – il ricordo di un regista ossessionato dai propri stilemi, spesso ripetitivo e noioso, tardivamente ideologico e magari favorito dalla condizione di esule a fasi alterne, capace di sfruttare risorse internazionali. Per i pochi estimatori un “poeta della storia” (la definizione è di Antonio Tabucchi).
Nella sua opera il mito classico si innesta sul didascalismo brechtiano, l'epica delle pulsioni si intreccia alla liturgia quasi ieratica della rappresentazione, il tempo cinematografico acquista una nuova dimensione dilatando il riferimento alla realtà e lasciando allo spettatore lo spazio della riflessione, gli interminabili (ma non avvertiti come tali) piani sequenza sono cimento narrativo prima che prodigio tecnico, l'uso dell'inquadratura fissa sposta l'attenzione dagli attori agli attanti e riporta all'origine del discorso.
Le sue sono tappe di un mirabile percorso esistenziale ove il privato non è mai disgiunto dal pubblico e dal politico. Paradigmatico per la sua intera filmografia è, in Lo sguardo di Ulisse, film intrecciato sul tema del viaggio – viaggio nei luoghi fisici dei Balcani, viaggio nelle guerre del secolo che li hanno insanguinati –, un terzo viaggio, quello che costituisce il motivo dell’impresa: rintracciare i leggendari rulli del primissimo film girato dai pionieri del cinema greco, i fratelli Maniakas. Negativi mai sviluppati, «uno sguardo imprigionato all’inizio del secolo» e che si vorrebbe fosse «fosse liberato alla fine del secolo», e che cosa è un cinetecario se non «un collezionista di sguardi perduti»?
Anche questo terzo viaggio, quello nel cinema, alimentato da continui rimandi, reperti e riferimenti, si conclude, in uno scenario che è insieme di morte e di speranza: soccomberanno le persone care al moderno Odisseo, ma vedranno finalmente la luce (anche se non per i nostri occhi) le antiche immagini mute. Sopravvive così l’innocenza di un lontano sguardo creativo, rinnovato dallo sguardo della ricerca, come se un’originaria purezza potesse riportare al mondo una pace interiore e civile.