C'è stato un tempo in cui, anche in Italia, si attendeva con trepidazione ogni anno il nuovo film di Danny Kaye.
Che cosa ce lo faceva amare? La sua non avvenenza da eterno adolescente, il suo scilinguagnolo espresso in strampalate canzoni di cui si intendeva solo il senso o in monologhi che i doppiatori si sforzavano di rendere, la surrealtà di tante situazioni che rasentavano il nonsense, i suoi tic e le sue onomatopee (strumenti, suoni, rumori, animali)? L'insieme di tutto ciò, che lo rendeva insuperabile dinanzi ai vari comici americani che inflazionavano i nostri schermi da paese colonizzato: i vari Bop Hope, Red Skelton, Donald O'Connor (quello del mulo parlante) in attesa di Jerry Lewis.
Non si sapeva ancora di umorismo yiddish o dei quadri di Chagall nei cui cieli poteva tranquillamente trovare posto e nemmeno si sapeva che David Daniel Kaminsky fosse figlio di ebrei immigrati dall'impero russo. Si sapeva soltanto che, in tempi in cui la tenitura in sala nelle varie visioni, sino all'ultima, era indeterminata, i suoi film erano sempre reperibili, apparentemente senza età: Così vinsi la guerra (1944), L'uomo meraviglia (1945), Preferisco la vacca (1946), Sogni proibiti (1947, che l'anno scorso, detto per inciso, ha avuto un pessimo remake), Venere e il professore (1948, diretto addirittura da Hawks), L'ispettore generale (1949) e poi Il favoloso Andersen (1952), Bianco Natale (1954), Il giullare del re (1956), Il principe del circo (1958), sino a Io e il colonnello (1958) ove a sorpresa Kaye affronta un ruolo drammatico.
Ad appena cinquant'anni (Il piede più lungo, 1963) Danny si ritira dallo schermo o meglio dai suoi ruoli (lo si vedrà ancora in La pazza di Chaillot, 1969). Ma nel 1954 questo attore amato dai più giovani è già rinato emblematicamente come primo ambasciatore nella storia dell'Unicef. Morirà nella data che qui si ricorda mantenendo inalterata la sua aria di giovinezza, timida e svagata.