L'”occhio del secolo”, come venne definito Henri Cartier-Bresson, poteva restare estraneo al cinema? Forse il più grande fotografo del Novecento, capace di cogliere tramite la sua Leica l'attimo fuggente con aria disincantata ma anche un po' maliziosa, fondatore – nel 1947 con Robert Capa e altri – della famosa Agenzia Magnum che ha dipinto con la luce molto del nostro immaginario, va ricordato anche per i suoi rapporti con il cinema, di cui quasi tutti si sono dimenticati nel giorno della sua scomparsa all'età di 95 anni.
Cartier-Bresson comincia come aiuto o assistente regista per Jean Renoir (Une partie de campagne, 1936, e La règle du jeu, 1939, e in entrambi figura anche come interprete non accreditato); si esercita come regista nel collettivo La vie est à nous, 1936, con Renoir, Jacques Becker, Jean-Paul Le Chanois et al.), manifesto del Fronte Popolare, per poi realizzare in Usa due documentari (Return to Life, 1938, sulla guerra di Spagna, con Herbert Kline, altro famoso fotografo, e Le retour, 1945), sul ritorno in patria dei prigionieri di guerra e dei deportati; infine è il fotografo di scena de Gli spostati (1961, di John Huston), l'ultimo film di Marilyn Monroe.
«La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell'intuito e della spontaneità. [...] Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l'immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere» (da Henri Cartier-Bresson, Contrasto, 2004).
Si parla di fotografia ma forse si potrebbe parlare di cinema.