Tanto vale, per una volta, gettare la maschera in pubblico anche qui. L'estensore satellitare di turno si chiama, all'anagrafe, Gioacchino Lodato, come apprese sorridendo amabilmente, dai documenti presentati, Alberto Farassino allor che volle chiamarlo a collaborare all'Università di Pavia, e prima di lui, sghignazzando meno amabilmente, decine di migliaia di studenti, grazie al timbro-firma in calce a pagelle e schede, cartelloni finali e … sospensioni, quando capitava, durante l'ormai remoto ventennio di onorata presidenza (pardon: “dirigenza scolastica”) nella secondaria statale.
Gioacchino si chiamava il nonno, laggiù in Sicilia (com'è strana la vita: in contrada dell'Ulmo a Niscemi, dove oggi si lotta contro il MUOS, c'erano, o forse ci sono ancora, le terre di famiglia...). Gioacchino uno dei suoi tredici figli, come il di lui primogenito, e più in generale ogni primo nato maschio ai dodici fratelli e sorelle di mio padre Francesco, e poi un numero ormai per me incalcolabile di figli dei molti cugini della mia generazione.
Tra questi infiniti omonimi, il più illustre è stato senza dubbio il mio cugino primo, purtroppo mai conosciuto di persona, cittadino americano alias James Lodato: sbarcato ad Omaha Beach o giù di lì la mattina del D-day, e riuscito, tra i pochi, a portare a casa la pelle. La mia infanzia è varcata dal ricordo di grandi foto seppiate in blu, marrone o verde scuro, di questo fiero militare decoratissimo sullo sfondo dei grattacieli newyorkesi.
Che rischi avesse corso davvero l'avrei capito a sedici anni, nel '62, quando vinsi, al liceo, come premio (intitolato alla memoria, curiosamente, di un preside fascistissimo, quello che nel '38 aveva sostituito l'amato professor Dino Provenzal, silurato dalle leggi razziali) il libro appena uscito, tradotto dalla Garzanti, di Cornelius Ryan, che divorai come il relativo film omonimo a più mani dell'anno successivo. Ne nacque una passione spropositata e tuttora anch'essa divorante per le due guerre mondiali, che brucia inconsulta e tardiva, ma che non preservò neanche me, come credo nessuno, dallo choc dei primi venti minuti del Soldato Ryan.
[Nota finale di colore: il padre dell'eroe, che fece fortuna nella Grande Mela come semplice barbiere fino a diventare proprietario di una catena, tornò per la prima volta in Italia nel '67, oltre mezzo secolo dopo la sua partenza. Simpaticissimo signore dinamico dalla parlata intraducibile e semincomprensbile, per sdebitarsi dell'ospitalità di famiglia volle condurmi al cinema. Già in prede alla sbornia hawksiana che avrebbe condotto a ripetute pubblicazioncine successive, scelsi El Dorado, in prima visione proprio allora. Durante l'intera e da me godutissima proiezione, coglievo in lui reiterati segnali di disagio. Lo confessò tre giorni dopo: "L'avevo visto a New York due giorni prima di partire"].