Forse solo nel giorno della sua prematura scomparsa a soli 48 anni per una grave forma di leucemia ci si rese conto di quanto Stefano Satta Flores ci sarebbe mancato.
Lui sembrava presago, quando nei panni di Nicola, l'intellettuale di provincia frustrato e contestatario, pronunciava una famosa battuta in un film forse altrimenti sopravvalutato, il C'eravamo tanto amati (1974) di Scola: «Ma che, ma chi l'ha detto? Buttare via la propria vita significa farne il migliore degli usi. Oppure preferite quest'altra battuta, ah? Vivere come ci pare e piace costa poco, perché lo si paga con una cosa che non esiste: la felicità».
In quello stesso giorno scriveva Rodolfo Di Giammarco su Repubblica: «E ora? Ora non vedremo più “quell'attore coi baffi e simpatico”, quel ritrattista in scena di tanto nostro passato prossimo, non sentiremo più i suoi personaggi veri in storie forse inventate, e saremo privi di un commediante che s'era mostrato interprete attento al rumore della vita, uno che sempre partecipava di persona, che non si dava pace, non vantava certezze, non coltivava amicizie, e tuttavia alla distanza, negli ultimi anni, aveva mietuto nuovi consensi sviluppando come autore la vocazione di intrepido, un po' sfottente raisonneur del sud».
Nasce attore di teatro, il napoletano Satta Flores, fin dai tempi in cui, nel Centro Teatrale Universitario della sua città, recita Saroyan, Flaiano, Campanile in compagnia di Mariano Rigillo e di Bruno Cirino, ma è con il cinema – dopo essersi diplomato al Centro Sperimentale nel 1962, comparendo in Ginepro fatto uomo, film di diploma di Marco Bellocchio, suo compagno di corso – che conosce la popolarità: occasione presentata da I basilischi (1963) della Wertmuller, ove è una sorta di vitellone del Sud, un po' tragicomico e un po' fatalista.
Catalogato come caratterista, dovrà attendere prima che lo schermo si accorga ancora di lui. Riesce tuttavia a esprimere sia il suo talento brillante (La ragazza con la pistola, 1968, di Monicelli; Teresa la ladra, 1973, di Di Palma; Colpita da improvviso benessere, 1976, di Giraldi) sia la sua vocazione di impegnato (il protagonista del televisivo Quaranta giorni di libertà, 1974, di Leandro Castellani; il Carlo Pisacane di Quant' è bello lu murire acciso, 1976, di Lorenzini; il partigiano di L' Agnese va a morire, 1976, di Montaldo). Lo ricordiamo ancora, diretto da Squitieri (strana consonaza), in Il prefetto di ferro (1977), L' arma (1978), Corleone (1978), nonché in La terrazza (1980, di Scola) e – sua ultima apparizione – in Cento giorni a Palermo (1984, di Ferrara).
Peccato che nel cinema non sia riuscito compiutamente a esprimere quel disegno culturale e politico che conferì spessore e dimensione critica al suo ruolo di attore e di commediografo in teatro. Sin dai tempi del sodalizio con Cristiano Censi e Isabella del Bianco, nei circuiti Arci e nelle Case del Popolo ove porta Brecht e Shakespeare. Altri tempi.