«Il punto d’arrivo del cinema, raggiunto in rari istanti dai grandi fra i grandi: Losey, Lang, Preminger e Cottafavi, consiste nel liberare lo spettatore da ogni distanza cosciente per precipitarlo in uno stato di ipnosi sostenuto da un incantamento di gesti, di sguardi, di infimi movimenti del volto e del corpo, di inflessioni vocali, in seno a un universo di oggetti scintillanti, lesionanti o benefici, in cui ci si perde per ritrovarsi accresciuti, lucidi e pacificati. […] Losey, Preminger, Cottafavi, Don Weis, Lang, Walsh, Fuller, Ludwig, Mizoguchi soltanto hanno conosciuto in gradi diseguali il segreto di una presa sull’attore e sul décor che Murnau o Griffith non erano in grado di condurre alle sue estreme conseguenze, e che Hawks, Hitchcock, Renoir, Rossellini non hanno fatto che intravedere senza controllarla.»
Non paiono un tantino esagerate, per quanto riguarda Cottafavi, queste opinioni di Michel Mourlet (Sur un art ignoré, in Cahiers du Cinéma, n. 98, agosto 1959), ad Adriano Aprà e Giulio Bursi, che introducendo cinquant'anni dopo il catalogo Ai poeti non si spara. Vittorio Cottafavi tra cinema e televisione (Cineteca di Bologna, 2010), commentano: «il suo cinema avrebbe vissuto per decenni in maniera quasi clandestina, solo attraverso gli occhi di chi, all’epoca, lo aveva saputo capire, diventando uno dei più clamorosi casi, nella storia del cinema “popolare”, di un regista che ha dato vita ad un rapporto intenso, profondo, quasi morboso di affezione col suo pubblico: per una intera generazione di cinefili, dire di amare od odiare i suoi film funzionava come cartina di tornasole di una sensibilità esclusiva».
Si può però anche essere imparziali, come le vecchie Lune, in occasione della sua scomparsa il 14 dicembre 1998 (era nato appunto il 30 gennaio 1914, un secolo fa): «Sceneggiatore dal 1939 (Abuna Messias di Goffredo Alessandrini), regista dal 1943 (I nostri sogni, dalla commedia di Ugo Betti), firma nel 1949 La fiamma che non si spegne, ispirato alla morte del carabiniere Salvo D'Acquisto e contestato da sinistra alla Mostra di Venezia (oggi, a torto, se ne fa un caso di faziosità della critica). Dopo Traviata '53 (1954), film ammiratissimo da Truffaut, si volge con sapienza ai pepla (La rivolta dei gladiatori, 1958; Le legioni di Cleopatra, 1960; Ercole alla conquista di Atlantide, 1961) ma deve attendere il 1965 (I cento cavalieri) perché gli venga riconosciuto, sulla scia dell'ampio consenso critico francese (Positif lo ha contrapposto ad Antonioni e Bertrand Tavernier gli sarà amico ed estimatore sino alla fine), uno statuto autoriale. L'insuccesso commerciale di quest'ultimo film lo costringe a chiudere con il cinema, ma gli apre maggiormente le porte della tv (già praticata dal 1957), dove affronta, come adattatore e regista, una cinquantina di produzioni, fra testi letterari e opere teatrali, autori classici e moderni, sceneggiati storici e nuovi generi (fantascienza e giallo). Memorabili almeno I racconti di Padre Brown (1970, con Renato Rascel), A come Andromeda (1972), ma soprattutto due veri e propri film: Maria Zef (1981, dal romanzo di Paola Drigo) e Il diavolo in collina (1985, dal romanzo di Cesare Pavese)».
Insomma, notevole, ma non esageriamo.