Dean Martin e Jerry Lewis si esibiscono per la prima volta in coppia. Il loro sodalizio durerà dieci anni esatti: il 25 luglio 1956 Lewis e Martin annunciano la loro separazione nel corso di uno show al Copacabana di New York. Nel frattempo, solo per stare al cinema, avevano interpretato insieme diciassette lungometraggi diretti da George Marshall (3), Hal Walker (5), Norman Taurog (6), Joseph Pevney (1), Frank Tashlin (2): La mia amica Irma (1949), Irma va a Hollywood (1950), Il sergente di legno (1950), Quel fenomeno di mio figlio (1951), Attente ai marinai (1952), Il caporale Sam (1952), La principessa di Bali (1952), Il cantante matto (1952), Morti di paura (1953), Occhio alla palla (1953), I figli del secolo (1953), Più vivo che morto (1954), Il circo a tre piste (1954), Il nipote picchiatello (1955), Artisti e modelle (1955), Mezzogiorno di... fifa (1956), Hollywood o morte! (1956).
Una vera e propria alluvione, a ritmi intensi e a scadenze fisse, anche per gli schermi italiani. Lui, Dino Crocetti, d'origine italiana, cantante confidenziale: belloccio, intraprendente, fortunato con le donne. L'altro, Joseph Levitch, d'origine russo-ebraica, intrattenitore da night, maldestro, ingenuo con punte di malizia, imbranato in amore. Ben presto definito “il picchiatello”, inconfondibilmente doppiato da Carlo Romano, Jerry diverte ma viene preso sotto gamba, anche per le ambientazioni di maniera e le storie un po' troppo semplicistiche. Quanto a Dean, che man mano occupa più spazio (causa delle successiva separazione) e nutre ambizioni da attore “serio”, infastidiscono la sua vacuità, estesa alla peraltro poco comprensibile incombenza canora, e la sua eccessiva sicurezza che spesso assume toni di tracotanza. La coppia è ben bilanciata, spesso pare che recitino a soggetto, ma l'interazione tra i personaggi, pur perfetta, finisce con l'essere stucchevole.
I due restano così, da noi, confinati a un divertimento da domenica pomeriggio e anche la critica valuta i loro film con una certa sufficienza. Almeno sinché una sorta di sdoganamento non giunge dalle fonti più insospettabili: un rigoroso critico marxista, quale Glauco Viazzi, e una rivista di rigida tendenza, quale Cinema Nuovo. Scrive Viazzi il 25 ottobre 1953: «Lewis è un attore di talento, dotato di una personalità ancora in formazione, ma già precisata nelle sue linee generali, con alcuni elementi costanti e fondamentali. […] Lewis si presenta come erede e continuatore di una delle tradizioni più significative del cinema americano: anche il suo è, in termini farseschi e comici, un dramma dell'isolamento, dell'individualismo, sofferto nell'intimo della società americana. Fatte le debite proporzioni, può essere avvicinato a certo Harry Langdon, con un poco di doti satiriche in più, e parecchia poesia in meno. […] Per quel che possiamo vedere dai film, Lewis è un talento sprecato, dalle qualità continuamente frenate e ricacciate verso i vicoli ciechi del conformismo e dell'illebarilità» (ora in Scritti di cinema, a cura di Cristina Bragaglia, Longanesi, 1979).
La separazione sembra dapprima giovare soprattutto a Dean Martin, che affronta ben meritando i significativi ruoli di I giovani leoni, Qualcuno verrà, Un dollaro d'onore, ma viene poi tritato, con Sammy Davis Jr., Joey Bishop e Peter Lawford, nel gruppo del Rat Pack, capitanato da Frank Sinatra, quello di Colpo grosso, Tre contro tutti, I 4 di Chicago, e si fossilizza nella serie di quattro film dedicati all'agente segreto Matt Helm. Triste il suo declino, sino alla scomparsa, inattivo da dieci anni, nel 1995. Lewis, che nei primi tempi sembra annaspare nella routine, si risolleva anche passando alla regia di se stesso con Ragazzo tuttofare (1960) e viene apprezzato come tale, tanto da essere celebrato dai Cahiers du Cinéma come “il regista totale” (e The Total Film-maker sarà il titolo di un suo libro sull'arte drammatica). I successi non si contano: L'idolo delle donne (1961), Le folli notti del dottor Jerryll (1963), I sette magnifici Jerry (1965) e, ma solo in Francia, Scusi dov'è il fronte? (1970) lo confermano.
Ma qui ci piace ricordare un Lewis attore per altri, ormai fuori concorso (ma non fuori corso) e quasi un sopravvissuto. Per primo ci prova Martin Scorsese in Re per una notte (1963) conferendogli i panni di un celebre e malinconico presentatore televisivo; in seguito Emir Kusturica in Arizona Dream (1992) che gli attribuisce i panni di uno zio che vuole insegnare al nipote la fede nei pilastri dell'American way of life. Entrambi un colpevole insuccesso. Infine, dopo il quasi autobiografico Il commediante (1995, Peter Chelson) in cui compare accanto ad altri mostri sacri, Max Rose (2013, Daniel Noah), che ripercorre la vita del famoso pianista jazz dopo la morte della moglie Eva. E anche qui la malinconia non manca, a dimostrazione dell'assioma sulla tristezza dei grandi comici.