«Buon giorno, signore. Sono un padre di famiglia americano. Come lei mi considero un patriota. Mio padre, come il suo, è stato decorato per aver combattuto nella Seconda guerra mondiale. Mi ha allevato con una fede profonda nella Costituzione e nei diritti civili. Molte sue azioni e proposte sembrano violare ogni principio del Paese di cui è presidente: intolleranza per il dibattito ("con noi o contro di noi"), marginalizzazione dei critici, diffusione della paura attraverso una retorica ingiustificata, manipolazione dell'informazione. Quando usa le parole "un nuovo tipo di guerra" spesso le accompagna con uno strano sorriso. Mi preoccupa che ci chieda di rinnegare tutti gli insegnamenti della storia per seguirla ciecamente nel futuro. Mi preoccupa perché con tutte le sue buone intenzioni un enorme attivo economico è stato dilapidato. Il suo governo ha gettato da parte le preoccupazioni più fondamentali per l'ambiente e di conseguenza sembra di capire che, così come sembra disposto a sacrificare i bambini del mondo, voglia sacrificare anche i nostri figli. So che questo non può essere il suo obiettivo, perciò la prego, signor Presidente, ascolti la musica di Gershwin, legga qualche capitolo di Saroyan, o i discorsi di Martin Luther King. Si ricordi che cos'è l'America. Ricordi i bambini dell'Iraq, i nostri figli, e anche i suoi. [...] La prego, signore, ci aiuti a salvare l'America prima che la sua sia un'eredità di vergogna e di orrore.»
È il testo di mezza pagina a pagamento (56.000 dollari) che compare sul “Washington Post”, destinatario George W. Bush, mittente Sean Penn. Undici anni dopo, il “Post” non è ancora passato all’elettronico (come il settimanale “Newsweek”), il presidente è un afroamericano, Sean è sempre più un’icona dell’America liberal o radical o altro ancora (oltre che un bravissimo attore e regista), ma siamo proprio sicuri che il messaggio non rischi di essere tuttora valido?