Il primo confuso incontro, di poco successivo alla lettura del volumetto BUR dedicato nel 1951 alla tragedia shakespeariana, fu la tardiva visione in qualche cinemino dell'Amleto (1948) di Laurence Olivier con una Jean Simmons troppo Max Factor nel ruolo di Ofelia. Si sapeva ancora poco di psicoanalisi, ma che ci fosse di mezzo il complesso di Edipo, in quella classica eppur moderna messa in scena, lo capiva anche un adolescente precoce.
Occorreva a questo punto poter osservare il prence di Danimarca dal vero, e l'occasione venne nel 1954 con la prima versione completa inscenata con il Teatro d'Arte Italiano da Luigi Squarzina, protagonista un Vittorio Gassman molto narcisista, che da gran mattatore qual era pareva esser lui l'autore del testo, con una smarrita Anna Maria Ferrero nei panni di Ofelia.
Ma la vera sorpresa giunse dieci anni dopo, tanto più preziosa quanto più rara, almeno per quanto riguardava il nostro mercato, e a reggere il grave compito era un attore la cui dialettica, congiunta alla sobrietà, ingigantiva il testo: Innokentij Michajlovič Smoktunovskij, di cui oggi si ricorda il ventennale dalla morte, a 69 anni.
Quello diretto nel 1964 da Grigorij Kozinčev, che si giovava della nuova traduzione di Boris Pasternak e della potente colonna musicale di Dmitrij Šostakovič, era un Amleto, anzi un Gamlet, che apriva nuovi orizzonti. Era un testo politico sui temi dell'ingiustizia e della dittatura, in un Elsinore che pareva una prigione, con un protagonista «riflessivo e impotente, inquieto e intellettuale, che sarebbe diventato il simbolo di un'epoca di profondi cambiamenti e di crisi delle categorie estetiche e politiche imperanti in Unione Sovietica sino alla morte di Stalin (1953)» (Daniele Dottorini). Lo avremmo interamente capito solo più tardi, ma intanto erano forti le riflessioni e le inquietudini che ci aveva trasmesso.
A farci apprezzare completamente Smoktunovskij e il suo talento immenso avevano contribuito altri due film, entrambi simbolo della stagione del “disgelo”, attore simbolo egli stesso: La lettera non spedita (1960) di Michail Kalatozov e, soprattutto, Nove giorni in un anno (1962), di Michail Romm. Nel primo è il capo di una piccola spedizione geologica che perisce a causa di un vasto incendio: l'allusivo tema centrale è la lotta angosciosa contro le forze preponderanti della natura. Nel secondo è un giovane scienziato «disincantato e lucido nell'analizzare il suo ruolo nella società sovietica contemporanea, nel riflettere sul significato della loro vita, dell'amore, del lavoro, della scienza nella società in cui vive: un'analisi che è critica ora aperta ora sorniona al passato e al presente della politica sovietica».
Colui che, con qualche contraddizione, ottenne il Premio Lenin per ques'ultimo film ed è stato proclamato “Il re degli attori sovietici”, premiato come Artista del Popolo nel 1974 ed Eroe del Lavoro Socialista nel 1990, è anche curiosamente legato al cinema italiano. Nel 1987 compare, accanto a Mastroianni e alla Mangano, in Oci ciornie di Nikita Michalkov; nel 1991, accanto a Isabella Rossellini, nel modesto Caccia alla vedova di Giorgio Ferrara; nel 1992, accanto a Franco Nero, nel modestissimo Zoloto (Oro) di Fabio Bonzi. E colui che aveva contribuito all'avvento in Unione Sovietica di un cinema moderno e alla rottura dei codici linguistici ed espressivi del realismo socialista pareva essersi spento con il loro tramonto.