C’è chi, in questo triste giorno, lo ricorda soltanto come polemico e talora pittoresco animatore delle conferenze stampa alla Mostra di Venezia, o chi lo consegna alla memoria collettiva grazie a C'eravamo tanto amati (1974, di Ettore Scola), ove è adombrato nel personaggio di Nicola (Stefano Satta Flores), intellettuale frustrato e pervicace, nonché sfortunato concorrente di “Lascia o raddoppia?”.
Ma Camillo Marino, nato a Salerno nel 1925 da famiglia antifascista ebrea, è, a modo suo, un protagonista dell’ideologia e del cinema dei nostri tempi, una bandiera solitaria cui rendere onore. Critico neorealista da sempre e per sempre, fonda nel 1958 e dirige sino alla morte “CinemaSud”, battagliera rivista di avanguardia, apprezzata forse più all’estero che in Italia.
Da essa nasce l’anno successivo, con il contributo di Giacomo D’Onofrio e di Pasolini, il Festival del Cinema Neorealista, “Il Laceno d'Oro”, cui egli stesso decide di dar fine nel 1988 pur di non consegnarlo nelle mani dei politici locali. Sofferta, infatti, quanto tenace la sua militanza: nella Resistenza, nel Pci (da cui viene espulso), nel Psi (ove avversa Craxi) e in formazioni partitiche minori.
È anche l’animatore (suo il soggetto) di un esperimento fuori tempo di cinema neorealista: La donnaccia di Silvio Siano, completamente girato nel 1963 a Cairano, un piccolo e caratteristico paese dell'Alta Irpinia, con gli abitanti del luogo che lasciano i campi per “la mille lire” che tocca alle comparse. Ma, estroverso qual è, non esita a interpretarvi un piccolo ruolo, così come fa in Due soldi di felicità (1954) di Roberto Amoroso e in Capriccio (1987) dell'amico Tinto Brass.