Chi avesse frequentato il Circolo Arci Corvetto di via Oglio a Milano – amena isola di verde attrezzato, buon cibo, buon vino, gioco delle bocce e tanta musica, assediata dai condomini e dalle case popolari – a partire dalla metà degli anni '80 non avrebbe non potuto imbattersi, con un certo sussulto, in un signore ben in carne e dall'abbigliamento molto casual che, non solo da presidente, ne era l'anima e con il quale era facile bersi un bianchino. Sì, era proprio lui, l'Ivan, che, molti anni e molti chili prima, all'inizio degli anni '60, avevamo conosciuto come redattore del Calendario del Popolo di Giulio Trevisani, la rivista mensile, grande esempio di cultura proletaria, di cui era stato via via fattorino e correttore di bozze.
Tra le due date sta un lungo periodo in cui l'Ivan ovvero il Della Mea, cantautore politico, spesso nell'acquisito milanese, affiancato a Giovanna Marini e a Michele Straniero, con il Nuovo Canzoniere Italiano e i Dischi del Sole, è una delle voci più autentiche e più trascinanti della canzone folk di protesta, un fedele testimone delle lotte e delle speranze che vengono dal basso ma volano molto alto, un vero cronista in musica e versi degli anni più bui ma anche più luminosi del nostro vivere civile e sociale: gli anni della contestazione e della repressione. Titoli come El me gatt, Ringhera, La ballata dell'Ardizzone, O cara moglie hanno accompagnato una generazione, ma l'Ivan, fondatore appunto con Gianni Bosio del Nuovo Canzoniere Italiano, è stato anche un grande ricercatore etnomusicale, un organizzatore di eventi e di spettacoli politici, un narratore, un poeta, un seguito titolare di rubriche giornalistiche per l'Unità, Liberazione e il manifesto.
Attivo nel campo del sociale sino all'ultimo, incontra il cinema in qualche occasione. Dopo essere apparso come attore ne Il rapporto (1969, di Lionello Massobrio), è tra i protagonisti musicali de I giorni cantati (1979, di Paolo Pietrangeli), ma soprattutto suoi, con Franco Solinas, sono il soggetto e la sceneggiatura di Tepepa (1969, di Giulio Petroni), forse il più convincente (e il più politico, così anticolonialista e sessantottino) dei western all'italiana.