Pare che in Italia l'unico regista meritevole di memoria e citazione perenne sia Federico Fellini (ora facente parte, secondo alcuni idolatri, anche del nostro PIL) e che in quanto ad attori si contendano il privilegio Alberto Sordi e, appunto, Totò, di cui anche oggi, come tutti gli anni, quasi fosse festa nazionale, non ci si esime dal ricordare il genetliaco.
Chi osa mai affermare che il re (come tutti i re) è nudo? Intendiamoci, la bravura del nostro è inoppugnabile: maschera da commedia dell'arte, burattino da teatro dei pupi, scilinguagnolo da intrattenitore, volto sin troppo inconfondibile (per fortuna, non si riuscirà mai a fare un biopic su di lui). Lasciamo stare l'uomo, con le sue manie aristocratiche e le sue propensioni tardomonarchiche: tutti assicurano che fosse di cuore e generoso e che visse con dignità negli ultimi anni il suo stato di semicecità. Ma il personaggio, alimentato anche da illustri sceneggiatori e battutisti (in primis Age e Scarpelli), gestito spesso da registi d'occasione, sfruttato da produttori senza scrupoli, riciclato in ogni modo e maniera e mezzo di produzione provoca più di una perplessità, che può rasentare il rifiuto.
Nelle sue opere di maniera (quelle che lo onorano nel titolo, a mo' di sicuro richiamo) rappresenta il cliché di un certo napoletano: goloso da fame atavica, assatanato (con una concupiscenza da guardone o al massimo da palpeggiatore), astuto da tenutario delle tre tavolette, istintivamente avverso alla politica e alla cultura, dal lineare pensiero ambiguo (ossimoro), fortunato nella sfortuna e sfortunato nella fortuna, ladro quanto basta. Ogni tanto qualcuno lo risolleva, dal Giuseppe Amato di Yvonne la nuit (1949) al Rossellini di Dov'è la libertà? (1954), dal Monicelli di Guardie e ladri (1951), il censuratissimo Totò e Carolina (1955), I soliti ignoti (1958), Risate di gioia (1960) al più modesto Paolella di Destinazione Piovarolo e Il coraggio, entrambi del 1955, ma il risultato è di stima: un attore monocorde, che volge al patetico o all'agrodolce o al melodrammatico, dotato di una umanità a comando e secondo copione (anche se è noto per le sue improvvisazioni). Buon ultimo giunge l'intellettuale Pasolini (Uccellacci e uccellini, 1966, e tre episodi di due film) a riportarlo alle origini: un burattino animato, ma ormai stanco e rassegnato, anche di fronte alle pretese del regista.
Eppure proprio da qui riprende la sua glorificazione. Da personaggio a perdere l'attore diventa, nell'immaginario collettivo, un personaggio a crescere, anche perché nulla viene lasciato di intentato nel perpetuarne, amplificarne e sublimarne la memoria. Grazie anche all'offerta continua delle televisioni, un po' come accade per la serie dei don Camillo o dei Bud Spencer, luminosi esempi del genio italico. In occasione del centenario dalla nascita, il più bello e anche il più tempestivo omaggio è quello che gli dedicò un docente universitario di Dottrina dello Stato per i tipi di un rigoroso editore di Bologna, allergico da sempre allo spettacolo (Roberto Escobar, Totò, Il Mulino). Ma, accanto alla speculazione (in senso filosofico), vi sono innumerevoli speculazioni decisamente mercenarie. Cosa ormai non si farebbe per legare il proprio nome al suo, per sfoderare memorie contrastanti o improbabili e per sfruttare sino in fondo diritti d'autore veri o presunti! Basta sfogliare quotidiani e settimanali di quel periodo. Con buona pace di chi ancora ritiene la fortuna di Totò un clamoroso caso di vincita (o di rivincita) al Totocalcio della storia del cinema. Come recita un libro-video di Marco Giusti, Totò si nasce e io, modestamente, lo nacqui.